Liquidità anticrisi finiti nel buco nero dell’indebitamento borsistico

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Che fine ha fatto il diluvio di liquidità anti-crisi? L’Europa ha un problema: la liquidità non sta circolando a dovere. Dall’inizio della crisi pandemica ad oggi la Banca centrale europea ha espanso la sua politica interventista sui mercati e iniettato nei mercati una quantità di denaro ancora maggiore di quella che Christine Lagarde aveva annunciato a fine 2019.

Con un intervento da oltre 750 miliardi di euro, Francoforte ha portato a 1,1 trilioni l’ammontare totale delle risorse che saranno acquistate sui mercati finanziari da marzo a dicembre. Il Pandemic Emergence Purchase Program (Pepp) si articola su una serie di sviluppi aggiuntivi rispetto alle linee guida precedentemente fissati dall’Eurotower. La Bce non avrà il vincolo dell’anno come durata residua minima dei titoli da acquistare: tale soglia è abbassata a 70 giorni. Nel solo periodo dicembre-luglio il bilancio dell’Eurotower si è espanso in termini netti di 642 miliardi di euro in un contesto che ha visto i prestiti bancari impennarsi di 970 miliardi.

Tuttavia, ovunque in Europa si sta verificando il problema che in Italia era stato evidenziato dall’aumento delle disponibilità del Tesoro a quota 100 miliardi di euro in piena pandemia: gli Stati aumentano i loro deficit e le banche la loro esposizione, la Bce acquista ma la liquidità non si trasmette all’economia reale. Ovvero di fronte al ritorno in auge di una fase di grave crisi e di blocco dell’economia reale sembra essersi rotto l’incantesimo del quantitative easing permanente, della natura di panacea totale dell’aumento della base monetaria su scala continentale. Come ricordato su Kritica Economica, questa espansione monetaria ha contribuito anche alla crescita dell’esposizione debitoria dei governi, che hanno potuto incamerare risorse a basso tasso di interesse sfruttando la crescente quota di titoli (nel caso italiano i Btp) finiti sotto il controllo dell’Eurotower.

I governi, tuttavia, troppo spesso hanno mostrato timidità e incertezza nello sfruttamento di questa potenza di fuoco. E questo per un motivo molto semplice: la moneta è un mezzo, non un fine. Come – in Europa – da troppo tempo ci siamo abituati a credere. L’economista Marcello Minenna ha spiegato in termini chiari la questione su Il Sole 24 Ore. Minenna ha preso come variabile segnaletica il valore dei depositi delle amministrazioni pubbliche presso la Bce, i quali “sono una posta operativa ed il loro livello è in genere a livelli minimi, con occasionali picchi di carattere transitorio o stagionale che possono dipendere dal collocamento di rilevanti quantità di titoli o dal prelievo temporaneo, ad esempio a fronte di spese di emergenza. Ebbene, da dicembre 2019 a luglio 2020 lo stock di depositi è aumentato di quasi quattro volte, passando da 180 a 697 miliardi di euro”.

Tutto questo non è normale, e segnala come non necessariamente la via della liquidità di massa sia percorribile. I dati dei depositi bancari delle imprese non finanziarie, nello stesso periodo, segnalano una crescita di poco meno del 20%, da 2.650 a 3.030 miliardi di euro, nel contesto di una crescita media che negli anni passati non aveva mai passato il 6%. Anche le imprese, dunque, tesaurizzano anche nel caso in cui facciano richiesta di liquidità per le attività di breve periodo. E tutto ciò è allarmante: la già fragile cinghia di trasmissione tra politica monetaria e economia reale sembra essersi bloccata e sembra esser iniziata la fase della trappola della liquidità.

“Anche quando le risorse  vengono trasferite alle imprese attraverso i prestiti agevolati, non vengono
utilizzate per spese ed investimenti”, nota Minenna, “ma rimangono inattive in depositi bancari prevalentemente a vista”. Una fattispecie allarmante dopo che nel secondo trimestre la recessione dell’economia dell’Unione era stata senza precedenti. Cosa manca per la ripresa? Manca la sana politica fiscale ma anche la fiducia reale delle imprese e dei produttori di ricchezza e occupazione in una svolta sistemica. L’era delle banche centrali e del Qe permanente ha portato a ritenere inevitabile la predominanza della leva monetaria sulla programmazione economica dei governi: la crisi del coronavirus ci insegna che non è così che stanno le cose. Investimenti strategici, opere pubbliche, piani occupazionali, riforme previdenziali, progetti di transizione energetica, infrastrutture e piani per la sanità non nascono con la semplice leva monetaria, ma vanno pianificati, messi in atto e inquadrati in una logica coerente che rivitalizzi il tessuto economico. Ciò non sta avvenendo in Europa: la liquidità langue inutilizzata o prende le direzioni del rischioso indebitamento borsistico, paralizzando la ripresa del Vecchio Continente. E danneggiando in particolare la posizione di chi, come l’Italia, necessita di strategie politiche serie.

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