La rapida crescita dei buchi supermassicci, enormi “mostri” che troneggiano al centro di molte galassie nutrendosi della materia circostante, potrebbe essere accelerata dalla radiazione proveniente dalle galassie vicine. A sostenerlo, in uno studio pubblicato su Nature Astronomy, è un gruppo internazionale di astrofisici provenienti dalla Columbia University, il Georgia Tech di Atlanta, l’Università di Dublino e l’Università di Helsinki.
I buchi neri supermassicci sono tra gli oggetti più affascinanti e spettacolari dell’Universo. Tuttavia, i meccanismi alla base della loro formazione sono ancora poco chiari. In particolare, recenti osservazioni hanno mostrato che alcuni di questi oggetti giganteschi potrebbero essersi formati “appena” 800 milioni di anni dopo il Big Bang raggiungendo una massa pari a un miliardo di volte quella del nostro Sole. Un comportamento sorprendente, poiché i modelli classici di accrescimento di un buco nero richiedono tempi di formazione molto più lunghi, di alcuni miliardi di anni.
Per questo motivo, i ricercatori stanno formulando diverse ipotesi che possano spiegare una crescita così rapida. Una è stata testata nella ricerca pubblicata su Nature Astronomy. Attraverso simulazioni al computer, i ricercatori hanno dimostrato che un buco nero può crescere molto rapidamente al centro della sua galassia se quest’ultima non produce nuove stelle perché bombardata dalla radiazione di una galassia vicina. Resa più “povera” di stelle, la galassia che ospita il buco nero può collassare velocemente, formando un buco nero che cresce rapidamente nutrendosi di gas, polveri, stelle in fase di spegnimento e anche altri buchi neri.
Ma in che modo la radiazione incide sulla formazione di nuove stelle? Nell’universo primordiale, le stelle e le galassie si formarono a partire dal raffreddamento di enormi quantità di idrogeno molecolare. Alcuni studi precedenti hanno ipotizzato che la radiazione proveniente da una galassia abbia potuto trasformare l’idrogeno molecolare in idrogeno atomico, impedendo così la formazione di nuove stelle che avrebbero resistito meglio all’attrazione gravitazionale del buco nero. Rimanendo allo stato gassoso, l’idrogeno sraebbe stato risucchiato facilmente dal black hole, che ingrandendosi avrebbe poi portato al collasso l’intera galassia che l’ospitava. Per emettere abbastanza radiazione da impedire la formazione di stelle, è stato calcolato che la galassia vicina avrebbe dovuto avere una massa di almeno 100 milioni di volte il nostro Sole. Sebbene piuttosto rare, galassie di questa taglia esistevano nell’universo primordiale.
Ulteriori conferme sulla validità di questo modello potrebbero arrivare il prossimo anno, quando sarà operativo il James Webb Space Telescope della NASA (successore di Hubble), che fornirà immagini a infrarossi dell’universo primordiale ancora più nitide.
“Capire in che modo si formano i buchi neri supermassicci può darci indicazioni sull’evoluzione delle galassie, inclusa la nostra, e più in generale dell’universo in cui viviamo”, sottolinea John Regan, della Dublin City University, co-autore dello studio.
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