Il super Euro rallenta l’inflazione che resta sotto al 2% annuo

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L’altra faccia dell’euro forte: la variabile che incolla Draghi al Quantitative easing. La divisia unica ha macinato terreno verso il dollaro e le altre principali valute. Ma in una fase di petrolio debole, significa che il Vecchio continente fatica a vedere i prezzi risalire laddove vorrebbe la Bce.

Arriva la fine dell’estate e la situazione è paradossale. Negli Stati Uniti, dove la banca centrale sta cautamente, ma dichiaratamente, alzando i tassi d’interesse e rendendo la valuta nazionale più appetibile, dove la ripresa è in corso da tempo e, nell’ultimo trimestre ha toccato il 3 per cento, la quantità di soldi investiti sulla caduta del dollaro è a livelli record, così alti che gli analisti ritengono inevitabile un rimbalzo della moneta, perché gli speculatori non possono non accorgersi di essersi spinti troppo in là. In Europa, dove la banca centrale è tuttora impegnata in una politica di tassi zero e massicci acquisti di titoli e, ufficialmente, non ha mai detto di averci ripensato, dove la ripresa si allarga, ma resta comunque tiepida, l’euro, da cui gli operatori dovrebbero tenersi lontani, ha raccolto, negli ultimi due mesi, più scommesse al rialzo che negli ultimi sei anni e, questa settimana, è tornato ad un cambio sul dollaro che non si vedeva dal 2015.

Il paradosso si spiega, probabilmente, con l’attesa, ormai inacidita da mesi e mesi di rinvii, che Mario Draghi annunci finalmente la fine del Quantitative easing e della politica di finanza facile, dando una spinta verso l’alto all’euro. Avrebbe dovuto farlo a giugno, secondo i mercati, poi la settimana prossima, nel primo vertice di settembre, ma già gli operatori sembrano rassegnati ad una nuova scadenza a ottobre. In realtà, anche ottobre sembra una data prematura: i più prudenti, come gli analisti di Barclays, preferiscono ormai parlare di “autunno” (che finisce a Natale). Il motivo è che la stessa ansia degli speculatori, facendo apprezzare l’euro, sta ostruendo la strada verso una normalizzazione della politica monetaria europea. Per la Bce, infatti, l’euro forte è il peggiore dei mondi possibili. Soprattutto se si accoppia con un petrolio debole. Valuta forte, barile debole significano infatti che si spende meno per le importazioni, la pressione sui prezzi si affievolisce e l’inflazione non decolla. In questo scenario, il vero motivo di interesse del vertice Bce in programma per la prossima settimana non è un improbabile annuncio di Draghi sul Qe, ma la pubblicazione delle previsioni dei tecnici di Francoforte sullo sviluppo dell’inflazione.

Il 2 per cento che resta il faro della politica monetaria è, infatti, sempre più lontano. A marzo, la Bce prevedeva che i prezzi sarebbero saliti dell’1,5 per cento nel 2018. A giugno aveva già limato la previsione all’1,3 per cento. Ma la proiezione incorporava un dollaro a 1,08 sull’euro. Questa settimana ha oscillato intorno a 1,20. Quanto vale questo divario per le previsioni di inflazione?

L’euro, nel 2017, si è apprezzato del 14 per cento sul dollaro, ma, in questo caso, conta il rapporto con le monete dei principali paesi con cui l’Europa commercia. Nel 2017, il tasso ponderato dell’euro verso questo paniere di valute è salito del 7 per cento. Negli ultimi sei mesi del 9 per cento. L’effetto sull’inflazione attesa è netto: secondo gli uffici studi di Barlcays e Bnp Paribas un aumento del cambio pari al 10 per cento contro quel paniere di valute comporta, nei 12 mesi successivi, una riduzione fra 3 e 5 decimi di punto del tasso di inflazione. In termini più semplici, se l’euro non si fosse apprezzato da marzo a oggi, l’inflazione nel 2018 sarebbe prevista a ridosso dell’1,8-2 per cento. Draghi potrebbe dichiarare vittoria e la normalizzazione tanto invocata dalle banche tedesche sarebbe alle porte. Per ora, invece, l’inflazione è troppo bassa: non sembra in grado di arrivare – e di stabilizzarsi – intorno a quel 2 per cento. Gli analisti di Barclays prevedono che, comunque, entro Natale un annuncio sul Qe ci sarà: riduzione degli acquisti di titoli da 60 a 35-40 al mese per la prima metà del 2018, poi a 15-20 miliardi dopo giugno. Ammesso che i mercati, però, lo rendano possibile.

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