Storia degli Stati Uniti: dal Nuovo Mondo alla Luna. Dall’America alla Luna (e oltre). A muovere la politica espansionistica americana, dal Nuovo Mondo fino ai confini dello Spazio esplorato, fu (ed è) l’idea di essere la nazione più giusta del Pianeta, guidata da Dio.
Nella vita l’importante è essere convinti e gli americani lo sono sempre stati. Convinti, come disse circa un secolo fa il presidente Woodrow Wilson, di essere “la nazione più giusta, più progressista, più onorabile e più illuminata del mondo”. Convinti di essere portatori sani di buone ideologie; convinti di dover esportare nel mondo la democrazia: con questo e altri simili presupposti, da almeno cento anni gli Usa dominano la scena mondiale. Perché è questo che, fin dalle loro origini, sono stati: un impero.
Liberi e autodeterminati: i primi a definirsi così furono, nel 1787, i padri fondatori degli Stati Uniti, seguiti, un quarto di secolo dopo, da un’altra voce illustre, Thomas Jefferson. Secondo l’allora terzo ex presidente degli Stati Uniti, quello che gli americani stavano creando, espandendosi nell’America del nord, era un impero della libertà.
Tutto era cominciato quasi due secoli prima, all’inizio del Seicento, quando speculatori londinesi, cattolici, puritani e quaccheri cominciarono a raggiungere l’America settentrionale dall’Inghilterra. Donne con le cuffie inamidate, uomini con abiti scuri, tutti estremamente determinati, poco alla volta fondarono le 13 colonie che, alla fine del Seicento, appartenevano alla Gran Bretagna, e che nel 1783, sette anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza, riuscirono a liberarsi definitivamente dai lacci della madrepatria.
Ce la fecero in nome dell’autodeterminazione dei popoli e della libertà delle nazioni, così dice la parabola del buon americano. Ma se invece le ragioni di quel conflitto con l’Inghilterra fossero state molto più prosaiche? Economiche, per esempio. «C’è un’altra interpretazione, secondo cui proprio la guerra d’indipendenza sarebbe stata la prima espressione di una volontà imperiale degli Stati Uniti», spiega Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti d’America all’Università di Padova.
Alla conquista del West. Secondo questa lettura della Storia, i coloni si sarebbero voluti staccare dalla Gran Bretagna perché, contravvenendo agli ordini del re, Giorgio III, volevano insediarsi nelle terre a nord-ovest. La regione compresa tra le catene montuose degli Allegheny-Appalachi e il fiume Mississippi era abitata dai combattivi nativi americani, e gli inglesi, che avevano appena concluso la guerra dei sette anni con la Francia, non volevano impelagarsi anche con loro. «La guerra del 1775-1783 non sarebbe dunque stata una guerra per l’indipendenza, ma per la conquista di un pezzo di America», afferma Luconi: «come una sorta di peccato originale, questa volontà espansionistica avrebbe caratterizzato tutta la politica estera statunitense».
Quando, a spese dei nativi, conclusero felicemente la loro marcia verso ovest, gli statunitensi si trovarono senza più una frontiera da oltrepassare.
Che fare? La cosa più ovvia, naturalmente: spostare la frontiera più in là. In questa corsa infinita verso l’orizzonte, un passetto alla volta gli americani hanno raggiunto lo spazio planetario, guidati dallo stesso spirito risoluto del capitano Achab, il cacciatore di Moby Dick, la balena bianca del romanzo di Herman melville.
L’espansione continua. Nell’ottocento, la caccia era agli inizi: gli statunitensi cominciarono dalla Louisiana (1803), continuarono con la Florida (1819), poi il Texas (1845) e l’Oregon (1846), poi si spinsero in Messico (1846-1848) e a Cuba, teatro della guerra ispano-americana del 1898. Rispetto all’inizio, però, qualcosa era cambiato.
All’alba dell’Ottocento, Thomas Jefferson considerava l’espansione continentale indispensabile per la sopravvivenza degli Usa: era la strada obbligata per spazzare via dall’America settentrionale le potenze europee che ne minacciavano l’indipendenza e i confini.
Un secolo dopo, invece, il colonialismo di fine Ottocento, il successivo impero costruito sui protettorati all’inizio del Novecento e le ingerenze internazionali furono motivate, oltre che da interessi economici, da un’idea fissa degli americani: quella di essere “la nazione indispensabile”, come affermò, alla fine degli anni novanta del secolo scorso, Madeleine Albright, Segretario di Stato di Bill Clinton. Questo senso di missione divina “toccata” agli Usa per difendere il benessere politico, economico e sociale dell’umanità, gli americani di ogni confessione lo hanno ereditato dalla loro religione delle origini: il puritanesimo.
«Prima di sbarcare sulla costa del Massachusetts nel 1630, il leader puritano John Winthrop incitò i propri correligionari a edificare nel nuovo mondo “una città sulla collina”, cioè a trasformare l’insediamento che si apprestavano a fondare in un esempio cui il resto dell’umanità avrebbe dovuto ispirarsi per la propria rigenerazione spirituale», racconta Luconi: «Dio è diventato l’autorità a cui gli Stati Uniti si sono richiamati per legittimare il loro espansionismo.»
In missione per conto di Dio. Gli americani giustificarono la guerra con cui sottrassero al Messico le sue regioni settentrionali (gli attuali California, Utah, New Mexico e Arizona) con la teoria del destino manifesto, secondo cui la Provvidenza aveva assegnato loro il controllo del Nord America per diffondervi la democrazia e le proprie istituzioni. «Anche lo sterminio delle popolazioni native, che all’inizio del Settecento i puritani consideravano creature demoniache, oltre a essere dettato da ragioni di sicurezza si ispirava all’invito biblico ad andare, moltiplicarsi e occupare la Terra. Un principio che poteva legittimare il genocidio di popolazioni pagane», sottolinea Luconi.
Un razzismo strisciante (peraltro comune, e non solo in occidente) che si manifestò nei confronti di tutti quei popoli etichettati come non-bianchi e, in quanto tali, ritenuti inferiori e bisognosi di essere civilizzati.
Parole e fatti. Rientrano in questo filone le parole con cui Woodrow Wilson, nel 1917, fece il suo ultimo tentativo per trovare una soluzione diplomatica alla fine della Prima guerra mondiale: una pace senza vittoria, con l’impegno degli Usa al mantenimento del nuovo ordine mondiale secondo i principi americani, cioè i principi “degli uomini e delle donne che sanno guardare avanti, di ogni nazione moderna, di ogni comunità illuminata”. Parole inutili, dal momento che, poco dopo, i discendenti di quei primi coloni inglesi entrarono in guerra per fare fronte le mire espansionistiche della Germania.
La vittoria in quel conflitto diede all’ego americano, secondo Luconi, un’ulteriore quanto superflua dose di vitamine.
«Non fu soltanto un successo militare che ne consacrò il ruolo di grande potenza, ma segnò anche la trasformazione degli Stati Uniti da Paese debitore a Paese creditore del resto del mondo e, in particolare, del Regno Unito e della Francia. Gli anni della guerra e del primo dopoguerra consentirono al grande capitale finanziario statunitense di partire alla conquista dell’Europa occidentale», sottolinea Luconi.
Contro l’Impero del male. Persino il secondo conflitto mondiale si rivelò, al di là delle ragioni dell’entrata in guerra, una manna dal cielo per gli Usa, che ne uscirono con un’economia illesa, un’accresciuta influenza politica e una rispettata forza militare: gli Usa erano ormai la potenza che tutti conosciamo. Una specie di prezzemolo in ogni minestra di popoli e nazioni in lotta fra loro e, spesso, anche contro l’America stessa: come l’URSS, l’impero del male durante la Guerra Fredda, o quel terrorismo che ha ferito l’anima degli americani l’11 settembre 2001.
Eppure bisogna ammettere che l’imperialismo moderno degli Stati Uniti non si basa solo sulla potenza militare: gli americani, che già nel 1914 impressionarono il mondo con il completamento del canale di Panama tra Oceano Atlantico e Pacifico, dalla metà del Novecento si sono dimostrati padroni del progresso scientifico. «Non è un caso che la Guerra Fredda contro l’URSS sia stata combattuta anche come corsa alla conquista dello Spazio, soprattutto dopo che il lancio dello Sputnik nel 1957 sembrò attestare un primato sovietico in questo settore», osserva Luconi.
Per quanto ancora? Questa egemonia, che si è nutrita, tra le altre cose, anche del frutto proibito di Steve Jobs, cioè dell’affermazione della società dei consumi, ultimamente comincia a perdere peso. E un presidente come Donald Trump non fa che ingigantire un serpeggiante sentimento antiamericano: mentre la crisi finanziaria, in apparenza senza fine, miete le sue vittime, un “ma” comincia a insinuarsi (in una parte degli americani) negli ideali dei vecchi missionari puritani. Perché, tutto sommato, il ruolo di imperialisti ormai conviene poco: non sarebbe meglio smetterla di inseguire ciecamente, per orgoglio e vendetta, quella frontiera, quella balena bianca che ha trascinato con sé nel gorgo il capitano Achab?
© Da Conquistatori nati, un articolo di Maria Leonarda Leone su Focus Storia Collection 22 (febbraio 2018).
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