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Riprogrammare gli astrociti per combattere il parkinson

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Riprogrammare gli astrociti per combattere il parkinson
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Parkinson, cellule cervello riprogrammate per combatterlo. Un gene le ha trasformate nei neuroni distrutti dalla malattia.CELLULE del cervello riprogrammate e trasformate nei neuroni che muoiono nel morbo di Parkinson. E’ forse questa la nuova strada per combattere una delle malattie neurodegenerative più diffuse. Il metodo, sperimentato su cellule e su topi, è stato descritto sulla rivista Nature Biotechnology ed è stato messo a punto dalla ricerca internazionale coordinata dall’Istituto Karolinska di Stoccolma.Questa malattia è nota dal 1817, ma nonostante gli sforzi, ancora non è stata trovata una cura e le terapie disponibili oggi sono purtroppo solo cure palliative. Per risolvere questo problema  da decenni diversi gruppi di ricerca in tutto il mondo cercano di sviluppare una tecnica di trapianto per combattere il morbo di Parkinson, in modo dar rimpiazzare le cellule che producono la dopamina, il neurotrasmettitore che controlla i movimenti, e che vengono progressivamente distrutte dall’avanzare della malattia. La patologia è infatti dovuta alla morte di un particolare sottotipo di neuroni: i neuroni dopaminergici. La scomparsa di queste cellule comporta la perdita del controllo dei movimenti e, in un secondo momento, anche di molte funzioni cognitive.

Il gruppo di studiosi, coordinato da Ernest Arenas, propongono una via alternativa a quella del trapianto e che consiste nell’indurre, direttamente nel cervello, alcune cellule nervose a cambiare identità, trasformandosi in neuroni dopaminergici. Il primo passo è stato quindi cercare i geni che permettono ai neuroni  che producono dopamina di svilupparsi e maturare. I ricercatori ne hanno individuati quattro che, introdotti nelle cellule che costituiscono l’impalcatura del sistema nervoso, chiamate astrociti, le hanno spinte a trasformarsi in neuroni dopaminergici.

Lo studio è durato complessivamente 6 anni e, secondo gli esperti, potrebbe aprire speranze nella lotta contro la malattia.  “E’ la prima volta – spiega Pia Rivetti di Val Cervo del Laboratory of Molecular Neurobiology dell’Istituto Karolinska di Stoccolma, una delle autrici di questo studio – che viene osservato un miglioramento dei sintomi del Parkinson, in topi da laboratorio, a seguito di una riprogrammazione cellulare avvenuta nel cervello. Inoltre,  la nostra scoperta fornisce una fonte di neuroni dopaminergici alternativa a quelle già sperimentate in passato. La tecnica che abbiamo sviluppato al Karolinska permetterebbe di sostituire le cellule morte nella malattia in maniera veloce e potenzialmente meno costosa di una terapia cellulare”. Ma che tipo di cellule vengono usate? “Le cellule da utilizzare in un trapianto sperimentale per il Parkinson possono avere diverse origini:  da tessuto cerebrale fetale umano, da cellule staminali embrionali umane o da fibroblasti umani. In tutti e tre i casi le cellule vanno coltivate, o differenziate o riprogrammate prima di venire trapiantate nel paziente,  il che comporta un tempo per preparare le cellule da trapiantare,  e l’immunosoppressione del paziente. Oltre a questi aspetti tecnici, nel caso delle cellule fetali ed embrionali umane esistono anche dei problemi di natura etica tuttora in discussione in alcuni paesi, che ne impediscono l’utilizzo”.

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La tecnica ha dato buoni risultati nei topi utilizzati come modello della malattia, ossia nei quali il morbo di Parkinson era stato riprodotto con caratteristiche simili a quelle della malattia umana, ma prima di passare alla sperimentazione clinica sarà necessario affrontare ancora una lunga fase di sperimentazione.

Che cosa avete scoperto testando questa tecnica sui topi? “La grande novità riportata nel nostro studio risiede nel fatto che è stato possibile realizzare questa riprogrammazione direttamente nel cervello dei topi di laboratorio usati come modello di Parkinson, senza dover eseguire un trapianto di cellule. A seguito di questo trattamento e nel giro di sole 5 settimane, gli animali hanno recuperato parte delle capacità motorie perdute.

Ci vorrà tempo prima di sperimentare questa tecnica sull’uomo. “Nonstante questi risultati siano molto incoraggianti, – conclude Rivetti di Val Cervo – una lunga fase di sperimentazione rimane da affrontare per rendere questa tecnica sufficientemente sicura ed efficace da essere testata su pazienti umani “.

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