Lockdown da pandemia e reset del debito pubblico mondiale

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Perché il nuovo lockdown porterà al reset del debito pubblico nel mondo. Le nuove chiusure in Europa segnano la fine delle speranze di ripresa a V e creano le condizioni per una crisi globale del debito, a cui verrà fornita una risposta straordinaria.

Tutta Europa gradualmente sta richiudendosi come a marzo. Dall’Irlanda alla Spagna, passando per Francia e Italia, il secondo lockdown è nei fatti. Le autorità dei diversi stati stanno imponendo nuovamente una sorta di quarantena locale e part-time, altre come a Dublino hanno varato una chiusura per tutti e tutto il giorno. I contagi crescono a ritmi drammatici di giorno in giorno. I casi più gravi si hanno in Francia, Spagna e Regno Unito. La prima supera ormai quota 50 mila. Questo significa che la ripresa dell’economia europea – ma potremmo dire lo stesso per quella globale – si allontana. Il rimbalzo del PIL nel terzo trimestre verrà probabilmente seguito da una nuova contrazione o da un andamento stagnante.

Se l’economia riparte più lentamente e più tardi, per contro i governi dovranno potenziare gli aiuti alle famiglie e alle specificatamente alle categorie colpite dalle loro misure restrittive. I livelli di debito pubblico lieviteranno anche oltre le previsioni sin qui pubblicate. Per l’Italia, il superamento del rapporto tra debito e PIL al 160% non sarebbe più un tabù. E Francia e Spagna oltrepasserebbero quota 130%, come del resto oltreoceano gli USA. Se il Giappone viaggia verso il 270%, la Germania resta ad oggi l’unica eccezione positiva tra le grandi. A fine anno, non dovrebbe oltrepassare il limite del 75%.

Il boom del debito globale

Perché il nuovo lockdown porterà al reset del debito pubblico nel mondo Tuttavia, secondo il Fondo Monetario Internazionale il debito pubblico globale a fine anno sarà in area 105%. Nella stessa Eurozona dovrebbe attestarsi intorno al 100%. Tutto questo è sostenibile? Sì, fino a quando le banche centrali continueranno ad assorbire le emissioni nette dei governi e a tenerne i costi a livelli irrisori.

Un debito fa male nel momento in cui entra a bilancio e comporta il sostenimento di un costo a carico dei contribuenti. Se è troppo alto rispetto al PIL, richiederà lo stanziamento di risorse sempre più ingenti per rinnovarlo.

Affinché questo boom del debito globale sia sostenibile anche nel lungo periodo, servono due condizioni: che i tassi di rifinanziamento restino sempre bassi e che non superino i tassi di crescita dell’economia. Ma se le condizioni lo richiedessero, cioè se l’inflazione tornasse a salire con vigore, le banche centrali si vedrebbero costrette ad alzare il costo del denaro. A quel punto, diversi bilanci pubblici salterebbero e con essi le democrazie. Poiché nessuno vuole arrivare a tanto, governi e banche centrali saranno presto costretti a trattare sottobanco un compromesso che tuteli tutti.

Dicevamo, il debito è sostenibile se può essere ripagato a costi contenuti. E se arrivasse a scadenza tra molti decenni? Questa sarebbe la strada maestra per monetizzare i debiti degli stati senza dichiararlo ufficialmente. Ad esempio, la Federal Reserve detiene più di 4.500 miliardi di dollari in Treasuries (più del 20% del PIL USA di fine 2019), mentre la BCE ha a bilancio titoli di stato dell’Eurozona per 3.000 miliardi di euro, oltre un quarto del PIL dell’area di fine 2019. Nei prossimi mesi, per non dire anni, continueranno a comprare debito dei rispettivi governi, fino ad arrivarne a detenere una percentuale rilevante. In Giappone, già circa la metà è in manco all’istituto di Tokyo.

La futura monetizzazione dei debiti sovrani

Per quanto il trend rassicurerebbe il mercato, fino a quando il debito formalmente arriverà a scadenza, gli investitori sconteranno sempre un certo rischio di credito. E con rapporti che viaggiano ormai apertamente quasi ovunque tra il 100% e il 200% del PIL, nessun governo potrà permettersi di rimanere in balia della finanza. Ecco perché le banche centrali toglieranno loro le castagne dal fuoco. Come? Immaginate che la BCE prenda tutti questi 3 mila miliardi di bond ad oggi accumulati in anni e anni di acquisti e li trasformi in un maxi-bond perpetuo o della durata di almeno 100 anni, chiedendo in cambio ai governi debitori il pagamento di un tasso d’interesse molto basso, per ipotesi dell’1%.

Peraltro, come accade già oggi, potrebbe sempre girare loro gli interessi incassati attraverso lo stacco dei dividendi alle banche centrali nazionali, di fatto azzerando il costo del debito.

Solo così, il debito pubblico resterebbe sostenibile anche a livelli esorbitanti. Né il mercato avrebbe remore a comprare le emissioni residue, confortato dal “salvataggio” di Francoforte. Questo scenario, di cui si discute più sul piano teorico che fattivo da anni, sta avvicinandosi incredibilmente per effetto della pandemia, che ha fatto esplodere i livelli globali di indebitamento, anche privati. Con la seconda ondata di contagi e gli annessi lockdown, la monetizzazione dei debiti sovrani per mano delle banche centrali è diventata lo scenario più realistico.

La seconda ondata Covid allontana la ripresa a V e rende probabile lo scenario W

Il boom dei contagi e il ritorno progressivo ai lockdown materializza i timori più cupi sulla ripresa dell’economia in Europa.

Boom di contagi in tutta Europa e, purtroppo, anche in Italia. Se la Francia ha imposto il coprifuoco serale in nove grandi città, tra cui Parigi, mezzo Regno Unito vive sotto lockdown locali mirati, mentre l’Irlanda è ufficialmente tornata al lockdown generale, primo caso europeo. Restrizioni si registrano ovunque, dall’Olanda alla Germania e fino alla Spagna. Nel nostro Paese, Lombardia, Campania e Lazio hanno imposto il coprifuoco dalle ore 23 alle 5 del mattino, mentre la didattica a distanza per i soli licei vigerà in Liguria, Lazio, Lombardia e Piemonte. Ad esclusione dei nido, vale per tutte le scuole anche in Campania.

Inutile girarci attorno, l’Italia si sta pian piano chiudendo come a marzo. E così nel resto d’Europa. La seconda ondata dei contagi era stata temuta sin dall’inizio di questa pandemia. Del resto, il ciclo di un virus è noto e tutti sapevamo che con l’abbassamento delle temperature il Covid sarebbe ricomparso, sebbene non se ne fosse effettivamente mai andato neppure in piena estate. Questo scenario allontana definitivamente le speranze per una cosiddetta ripresa a “V”, caratterizzata da un rapido rimbalzo del PIL dopo il crollo vigoroso del primo semestre.

L’ISTAT stima una crescita congiunturale in Italia del 12% nel terzo trimestre, il governo si mostra persino più ottimista. Ma questo è il passato. Già nel quarto trimestre in corso, infatti, il PIL potrebbe tornare a contrarsi o a ristagnare. Le chiusure delle attività considerate più a rischio e, in generale, il timore diffuso tra la popolazione di un blocco degli spostamenti come a marzo “raffredderà” i consumi dopo la breve ripresa sperimentata in estate.

Il contraccolpo all’economia europea

I conti correnti degli italiani, in linea con quanto accade nel resto del mondo, stanno gonfiandosi e certamente non per le migliorate condizioni economiche, quanto per l’effetto paura e per l’impossibilità o la mancata volontà di spendere. I viaggi, specie in aereo, sono ridotti al lumicino. Già prima di questa seconda ondata la IATA, la lobby mondiale delle compagnie, stimava un calo dei passeggeri nell’ordine del 55% per gli ultimi due mesi dell’anno. E’ probabile che queste previsioni andranno aggiornate ancora più al ribasso.

E allora, avanza sempre più lo scenario di una ripresa a “W” per l’effetto del “double dip” (“ricaduta”). Cosa significa? Dopo il violento crollo dell’economia nei primi mesi di quest’anno, già in estate con l’allentamento delle restrizioni il PIL ha esibito il segno più, pur recuperando solo parzialmente le perdite. Tuttavia, con l’arrivo dell’autunno e il ripristino di alcune restrizioni, il PIL dovrebbe tornare a regredire per rimbalzare ad allarme cessato. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, senza una seconda ondata in Europa l’economia si contrarrà del 7% quest’anno, ma ha anche avvertito che le perdite verranno colmate negli anni e che nel medio termine ammonteranno a circa 3 mila miliardi di euro per il Vecchio Continente.

Ma anche queste analisi, pur pubblicate da qualche giorno, sono vetuste. La seconda ondata c’è già e inevitabilmente il PIL nel 2020 subirà un collasso superiori alle ultime previsioni, che pure erano state ritoccate al rialzo per il cauto ottimismo che si respirava fino a settembre tra le cancellerie e gli uffici studi. Una conseguenza di questo disastro in corso e di cui non s’intravede al momento la fine c’è già: la Commissione UE propugna politiche fiscali espansive anche per il 2021, mentre la BCE si prepara a fornire nuovi stimoli monetari e invoca al contempo che il Recovery Fund diventi permanente, cioè che l’Eurozona opti senza indugi per quello che nei fatti sarebbe un bilancio comune.

Il premier Giuseppe Conte ha detto chiaro e tondo domenica sera, alla conferenza stampa mandata in onda dalla TV di stato, che non farà ricorso al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Le ragioni addotte sono semplici: si tratta di un prestito oneroso e che comporterebbe tagli alla spesa o aumenti delle imposte. Inoltre, ha spiegato che le voci di spesa che andrebbe a finanziare sarebbero state già coperte dal suo governo in questi mesi di emergenza sanitaria. Per tutta risposta, il segretario del PD, Nicola Zingaretti, ha dichiarato che sul MES non si possa liquidare il tema “con una battuta”. Insomma, maggioranza “giallo-rossa” sempre più divisa sul maxi-prestito sanitario da 36 miliardi di euro per l’Italia.

Ma il premier esce apparentemente rafforzato sulla vicenda, perché se egli non intende far ricorso al prestito di emergenza, Spagna e Portogallo, addirittura, starebbero ipotizzando di rinunciare ai prestiti del Recovery Fund. Il fondo da 750 miliardi di euro, così com’è stato varato a luglio dal Consiglio europeo, si compone per 390 miliardi di sussidi e 360 miliardi di prestiti. I secondi, a differenza dei primi, vanno restituiti. I governi socialisti di Madrid e Lisbona temono che siano condizionati negli anni all’ottemperanza delle condizioni imposte da Bruxelles e che contribuiranno a fare lievitare i rispettivi debiti pubblici. E anche per l’Italia, a conti fatti, il Recovery Fund sarà un costo. I 90 miliardi di prestiti, come detto, dovranno essere restituiti negli anni, mentre i quasi 82 miliardi di sovvenzioni saranno più che compensati dal nostro contributo di 96,3 miliardi. Al netto, perderemo 14,5 miliardi, soldi che andranno a finanziare gli altri stati comunitari, tra cui la Grecia. E attenzione: se non riuscissimo a spendere tutti gli 82 miliardi delle sovvenzioni UE, il costo per il nostro bilancio pubblico s’impennerebbe.

Se proprio uno stato si deve indebitare, pensano i premier Pedro Sanchez e Antonio Costa, perlomeno che lo facciano senza sottoporsi nei fatti a una sorta di vigilanza esterna. Il tema è incandescente. Il Recovery Fund rischia di essere abortito prima ancora di nascere. Domani, i capi di stato e di governo della UE dovranno trovare un’intesa complessiva su di esso e il bilancio comunitario. Le divisioni sono forti tra stati del Nord ed Est Europa, con i primi a pretendere che i fondi siano erogati ai soli paesi che rispettano lo stato di diritto. E l’Europarlamento pretende maggiori risorse per finanziare, in particolare, il “Green Deal” per gestire la transizione ecologica.

I dubbi degli stati su MES e Recovery Fund

Il MES non prevede alcuna condizione per i fondi elargiti nell’ambito dell’emergenza Covid, se non quella che siano utilizzati per finanziare voci di spesa “direttamente o indirettamente” collegati alla crisi sanitaria. Tuttavia, il timore dei più nel Sud Europa è che questo patto soltanto informale tra gli stati membri venga spezzato dopo le erogazioni e che qualcuno (l’Olanda?) alzi il dito per chiedere che sulla base del Trattato di funzionamento della UE siano rispettate le condizioni previste per i casi di concessioni di prestiti.

Il Recovery Fund prevede quali condizioni per l’accesso la presentazione di progetti finanziabili da parte dei governi europei. Inoltre, essi dovranno rispettare le linee di politica fiscale impartite da Bruxelles, cioè dovranno sostanzialmente seguirne l’indirizzo in fatto di deficit e riforme economiche. Poiché i prestiti verrebbero erogati in tranches, gli stati richiedenti rischiano una doppia umiliazione: in fase di presentazione dei progetti, nel caso in cui questi fossero respinti; in fase di implementazione dei finanziamenti, qualora divergenze su conti pubblici e riforme bloccassero le erogazioni, un po’ come avvenuto spesso in questi anni tra la Troika (UE, BCE e FMI) e la Grecia.

In generale, però, gli stati del Sud Europa stanno potendosi permettere di fare gli schizzinosi e finanche di ipotizzare la rinuncia a centinaia di miliardi di euro per il semplice fatto che la BCE ne ha abbattuto i rendimenti sovrani sui mercati finanziari. Ormai, l’Italia stessa riesce a finanziarsi a costi negativi fino alla scadenza dei 4 anni e non paga nemmeno l’1% fino ai 15 anni. Meglio ancora fa la Spagna, con rendimenti negativi fino agli 8 anni e che non arrivano su nessuna scadenza all’1%. In pratica, Madrid, Lisbona e Roma possono indebitarsi a tassi bassissimi, non trovando conveniente rivolgersi al MES e, in parte, neppure al Recovery Fund, i quali implicherebbero pur sempre dare conto a creditori pubblici, cioè agli alleati europei.

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