L’Argentina userà il Dollaro come valuta corrente

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Dollarizzare l’Argentina? Tutti i rischi di un’operazione con pochi precedenti. La nuova presidenza vuole adottare la valuta Usa e abbandonare il peso ma la situazione finanziaria del paese rende la transizione molto rischiosa, anche sul piano geopolitico.

Dollarizzare l’Argentina: ma è davvero un’opzione possibile? L’elezione alla presidenza di Javier Milei, che si dice anarco-liberista, pone ora all’ordine del giorno uno dei punti chiave della sua campagna elettorale: l’abbandono del peso e l’adozione del dollaro Usa per contrastare l’inflazione, che ha ora raggiunto il 142% (in sostanza, l’11.75% mensile). Un’operazione che costa 40 miliardi di dollari e che deve fare i conti con le volontà di Pechino.

L’esperienza di Quito e San Salvador

I dubbi sono tanti. Nessun Paese delle dimensioni dell’Argentina ha mai provato ad abbandonare la propria moneta (l’eurozona ne ha adottata una nuova, è un esperimento totalmente diverso).

A Panama, dove stampare banconote è vietato dalla Costituzione dal 1904, in Ecuador, a El Salvador la moneta Usa circola liberamente, e con qualche vantaggio economico, ma sono paesi decisamente più piccoli.

L’Ecuador ha adottato il dollaro nel 2000: dal 2004 al 2022 – dopo quindi tre anni di “convalescenza” dall’alta inflazione – ha registrato un’inflazione media (geometrica) annua del 2,8%, con una crescita media del 6,9%. Nello stesso periodo El Salvador ha registrato un’inflazione del 2,5% e una crescita del 4,8, e Panama un’inflazione del 2,5% con una crescita media del 9,5% malgrado la maxirecessione del 2020 (-18%).

Dollaro e moderazione fiscale

Uno sguardo alle finanze pubbliche mostra anche una certa moderazione fiscale: il debito 2022 in rapporto al pil – che non può essere “gonfiato” dall’inflazione – è del 57,7% in Ecuador, e del 53,7% a Panama. Più complessa la questione di El Salvador, che ha di recente portato il suo debito pubblico al 75,1% dall’88,1% del 2020: era al 46,8% nel 2004, segno che la dollarizzazione non impone una sana gestione dei conti pubblici.

Come cinque Ecuador e diciassette El Salvador

L’Argentina è un’altra cosa: a parità di potere d’acquisto – un’unità di misura necessaria, vista l’elevata inflazione del paese – le sue dimensioni misurate dal pil 2022 sono pari a cinque Ecuador, diciassette El Salvador (e mezzo), e sette Panama.

C’è un evidente problema di dimensioni: il governo di Quito ha dollarizzato praticamente grazie alla Coca Cola, e alla sua controllata Tonicorp, attiva anche nel settore dei latticini, che riusciva a distribuire dollari anche nei villaggi più piccoli. Non sono mancate, proprio in quel caso, tensioni sociali e politiche: i primi depositi in dollari avevano un tasso di interesse negativo.

Milei in cerca di 40 miliardi di dollari

La transizione dal peso al dollaro può diventare onerosa. Lo stesso Milei ha valutato in 40 miliardi di dollari, da recuperare, l’intero costo dell’operazione; e questo anche se gli argentini, per mantenere fermo il loro potere d’acquisto, possedevano già, a fine 2022, nei loro conti bancari o in contanti 246 miliardi in valuta Usa: più del 50% del pil in dollari del 2021, il 39% di quello del 2022 (la svalutazione morde…).

La sola scelta del tasso di cambio – tra tassi ufficiali e tassi del mercato nero – può avere conseguenze enormi. È vero che l’operazione può avvenire in un tempo relativamente lungo: El Salvador ha impiegato due anni, l’Ecuador sei mesi.

Riserve valutarie negative

Occorre però fare attenzione alle riserve detenute dalla banca centrale: Melei dice di volarla abolire (anche se Ecuador ed El Salvador la conservano), ma in ogni caso le sue attività e le sue passività, tra le quali ci sono riserve e banconote, sono parte del bilancio allargato dello Stato. A maggio, sulla base dei tassi di cambio allora vigenti, era stato calcolato un fabbisogno di dollari pari a 5,5 miliardi, non poco, solo per l’autorità monetaria.

In ogni caso, con 23,8 miliardi di dollari di riserve valutarie lorde (e -10 miliardi di riserve nette, perché prevalgono le passività, secondo il Fondo monetario internazionale) l’Argentina «non ha abbastanza dollari per dollarizzare – come ha spiegato Alejandro Werner, ex direttore per l’Emisfero occidentale per l’Fmi, all’Americas Quarterly – e non ha accesso ai mercati per ottenere dollari».

La bomba fiscale dei Leliq

La Banca centrale, inoltre, sta emettendo titoli di liquidità, i Leliq, per drenare moneta dal sistema e tenere sotto controllo l’inflazione: l’ammontare complessivo è in riduzione, ma l’autorità monetaria è ancora esposta per 22.581 miliardi di pesos, pari a 62,8 miliardi di dollari al cambio ufficiale, sui quali riconoscono un tasso del 130%. Sono il triplo della base monataria argentina e il triplo delle riserve valutarie lorde: per l’economista Ramiro Castiñera sono l’equivalente di uno schema Ponzi.

Secondo Roberto Cachanovsky, economista anch’egli ultraliberista – propone come Friedrich Hayek l’uso di qualunque moneta, in concorrenza tra loro – e favorevole alla dollarizzazione fino al 2019, questa massa di debito impedisce ora l’adozione della valuta Usa. Non mancano soluzioni più o meno creative, che consistono in una ristrutturazione dell’intero bilancio della Banca centrale o, in alternativa, l’ennesimo ricorso ai prestiti del Fondo monetario.

Un’antica proposta, mai realizzata

Il passaggio, insomma, è delicato e gli aspetti tecnici, fondamentali per la riuscita del programma, sono molto complessi. Un ennesimo default non si può escludere.

Non si può dimenticare che l’idea di dollarizzare l’economia non è nuova: fu proposta nel 1999 anche da Carlos Saúl Menem, il presidente che varò nel ‘91 il currency board, il cambio fisso con la moneta Usa. Fu istituito un gruppo di lavoro alla banca centrale, ma la sola notizia determinò un aumento dei tassi, nel timore di una nuova svalutazione, dopo quella decisa a gennaio di quell’anno.

La storia dei mesi successivi, tra l’elezione di Fernando de la Rúa, e l’introduzione del Corralito e poi del Corralón per evitare la corsa agli sportelli, e infine il rovinoso crollo del currency board spinsero il progetto sullo sfondo, anche se gli economisti hanno continuato a discuterne. Allora, come oggi, la proposta fu avanzata durante una fase di crisi, quando l’intera operazione era decisamente più complicata.

Obiettivi irrealistici

L’esperienza del currency board mostra anche cosa ci si può realisticamente attendere da una dollarizzazione: la stabilità monetaria, ma niente di più. L’Argentina non cederebbe più alla tentazione di monetizzare il proprio debito pubblico, e tornerebbe ad avere un’inflazione ragionevole. Non male, per un paese colpito ripetutamente da un surriscaldamento dei prezzi che, alla fine, punisce i più deboli.

La dollarizzazione però non garantirebbe una sana gestione fiscale e soprattutto non sarebbe sufficiente, da sola, per stimolare la crescita, per la quale occorre innanzitutto innovazione. Durante il currency board, l’aumento della produttività e quindi dei salari reali fu piuttosto limitato. Il tutto al costo di un forte irrigidimento della politica economica: niente politica monetaria, niente politica valutaria.

Il ruolo di Pechino

Non manca un versante geopolitico. Una quota importante delle riserve valutarie sono a disposizione dell’Argentina grazie a uno swap bilaterale, attivato nel 2014 e valido fino al 2026, tra la banca centrale di Buenos Aires e la Banca del Popolo cinese, che ha quindi un ruolo importante nel sostenere i pagamenti internazionali del Paese.

Dei 23,8 miliardi di dollari di riserve lorde, a metà agosto 17,9 miliardi risultavano forniti dalla Pboc cinese, anche se finora l’Argentina ha effettivamente attivato lo swap per 6,5 miliardi. I molti swap attivati dalla Cina sono operazioni che, secondo molti analisti, danno a Pechino un forte potere sui paesi assistiti, e la cosa è ancora più evidente per l’Argentina, in evidenti difficoltà finanziarie: i contratti sono formalmente simmetrici, ma è difficile che la Pboc abbia bisogno dell’assistenza di Buenos Aires.

Il dilemma di Milei

Milei ha adottato finora una forte retorica anti-cinese, ma è verosimile che abbia ora bisogno anche di Pechino, subito e a maggior ragione durante e dopo un’eventuale dollarizzazione (la Cina aiuta anche il dollarizzato Ecuador).

Forse sarà addirittura necessario un via libera da parte della Cina. A meno che la dollarizzazione non avvenga con il sostegno pieno, e un’intesa formale, con gli Usa. Operazione semplice con un’eventuale nuova presidenza Trump – “the Donald” è apparso entusiasta per l’elezione di Milei – più difficile, a meno che non prevalga un pragmatismo di carattere geopolitico, con Biden o un suo successore democratico.

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