L’effetto lockdown mantiene a zero l’inflazione

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Inflazione a zero. Perché non è una buona notizia. La notizia non ha avuto grande risalto, sommersa dalla lunga lista di dati e tabelle contenute nella Nota di aggiornamento al Def. Eppure ha implicazioni e risvolti non da poco e può rivestire anche un carattere simbolico per un Paese che nella sua storia recente (in particolare gli anni Settanta del secolo scorso) ha vissuto stagioni di inflazione a doppia cifra.

Il Governo segnala che l’andamento dell’inflazione ha riflesso – come era lecito attendersi data la profondità della recessione in atto – la debolezza della domanda e la caduta dei prezzi del petrolio e delle materie prime «durante il periodo di crisi più acuta a livello globale». Nei mesi di agosto e settembre, l’indice dei prezzi al consumo è risultato in discesa di 0,5 punti percentuali in confronto ad un anno prima, avvicinandosi al minimo storico precedentemente segnato nel gennaio 2015.

In aggiunta a questi fattori ciclici, a partire da giugno si è aggiunta «un’altra spinta al ribasso dei prezzi, causata dal significativo apprezzamento del tasso di cambio dell’euro, pari a quasi 8 punti percentuali nei confronti del dollaro rispetto all’andamento medio durante i primi cinque mesi dell’anno».Inflazione a zero. Perché non è una buona notiziaIl risultato è che nella media dei otto mesi dell’anno, il tasso di inflazione medio secondo l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività è risultato pari al -0,1 per cento. Inflazione sotto zero dunque. Non è una buona notizia, certamente. Perché un livello così basso dell’indice dei prezzi al consumo fotografa la stasi dei consumi e della domanda aggregata nel suo complesso. Vi sarà probabilmente un’inversione di tendenza nella parte successiva dell’anno, in coincidenza con la ripresa delle attività produttive dopo il lockdown, ma non tale da suscitare grandi aspettative, tanto che nella stessa Nadef il tasso di inflazione programmata per il 2020 si attesta allo 0,8%, e allo 0,5% nel 2021.

Siamo lontani dal target che la Bce per ora continua a mantenere fermo di un’inflazione attorno al 2%.Stando all’indagine sulle aspettative di inflazione e crescita condotta dalla Banca d’Italia tra il 25 maggio e il 17 giugno 2020 presso le imprese italiane con almeno 50 addetti, i giudizi sulla situazione economica generale nel secondo trimestre del 2020 risultano peggiorati rispetto alla precedente indagine condotta in marzo. Nell’indagine si segnala che le condizioni per investire «sono valutate in peggioramento. I piani di spesa prefigurano una riduzione degli investimenti nel complesso del 2020, riconducibile soprattutto alla caduta già registrata nella prima metà dell’anno». Le attese sull’occupazione «restano sfavorevoli nel settore dell’industria in senso stretto e nei servizi, mentre sono tornate positive nell’edilizia». Le attese sull’inflazione risultano diminuite su tutti gli orizzonti temporali.

La Bce nel suo bollettino n.3 del 2020 segnala come secondo la stima rapida dell’Eurostat, nell’area dell’euro l’inflazione sui dodici mesi sia scesa dallo 0,7% di marzo allo 0,4% ad aprile, principalmente per effetto della diminuzione dei prezzi dell’energia, ma anche della lieve flessione dell’indice al netto dei beni energetici e alimentari. La previsione è il calo dei prezzi correnti del petrolio e dei relativi contratti future contribuiscano a ridurre ulteriormente l’inflazione nel corso dell’anno. Domina l’incertezza sugli sviluppi della pandemia, e tutto ciò trova conferma nei comportamenti dei consumatori.

La stessa Bce segnala come vi saranno certamente effetti positivi dagli interventi adottati in risposta alla crisi, attenuando gli effetti recessivi sul reddito disponibile delle famiglie. «Tuttavia l’impatto sul reddito e l’aumento dell’incertezza comporteranno molto probabilmente variazioni significative dei profili di consumo delle famiglie». Del resto, gli effetti del periodo del lockdown si sono già evidenziati nei modelli e scelte di consumo. La sintesi del ragionamento è che le famiglie modificano i propri modelli di consumo «in risposta agli shock al reddito e alle conseguenti variazioni dei prezzi». A fronte di una riduzione del reddito disponibile, i consumatori tendono a rinunciare ai beni più costosi e a prediligere quelli relativamente meno costosi, oppure a orientarsi maggiormente, nei propri acquisti, sui «beni necessari».

Poiché il debito pubblico è espresso in termini nominali (comprensivo dunque dell’inflazione) un incremento più marcato dell’indice dei prezzi al consumo e dell’inflazione nel suo complesso sarebbe di aiuto. Anche se evidentemente la riduzione necessaria e graduale del nostro ingente debito pubblico (la stima è ora del 158% del Pil a fine 2020) non può che passare da una crescita più robusta. Ricette miracolistiche non esistono. Esiste per noi non un problema di sostenibilità del debito ma di costo di finanziamento per ora basso grazie agli interventi della Bce, e che comunque necessariamente dovrà essere compatibile con gli equilibri di finanza pubblica.

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