La quarantena crea un’economia di emergenza e debito pubblico

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Coronavirus, ecco perché per l’economia è peggio di una guerra. E il problema del debito viene dopo. I dieci milioni di disoccupati in due settimane registrati negli Usa fotografano l’enormità del problema. Ma la storia dice che la quarantena è l’unica garanzia di superamento dell’emergenza e ripartenza economica. Solo con i sussidi dello Stato, i cittadini e le imprese la possono affrontare.

Dieci milioni di disoccupati in due settimane. Per avere un’idea del terremoto che il coronavirus sta scatenando nell’economia mondiale, basta questo dato che viene dagli Stati Uniti, dove l’assenza di ammortizzatori sociali all’europea toglie ogni filtro all’impatto dell’epidemia. Forse, ancora più del numero (10 milioni), colpisce il tempo: solo due settimane, l’equivalente economico di un terremoto. Non siamo abituati a crisi, insieme, tanto violente e brutali. Neanche le guerre hanno riscontri così immediati.

New Yor State Department of Labor
New Yor State Department of Labor

Ma non è il solo motivo per cui la metafora che un po’ tutti abbiamo usato – “è come la guerra” – in realtà, in prospettiva, non funziona. Uno studio della Federal Reserve spiega che dalle guerre ci si risolleva molto più in fretta. Invece, analizzando le grandi epidemie – dalla Peste Nera del ‘300, al colera dell’800 alla spagnola del ‘900 – i ricercatori americani hanno trovato che le conseguenze si trascinano anche per decenni: fino a 40 anni dopo, i tassi d’interesse possono restare anormalmente bassi, a segnalare la scarsa voglia di investimenti. In un’economia, come quella di oggi, meno torpida e inerte di quelle del passato, tuttavia, questi bassi tassi di interesse possono tornar buoni: perché rendono meno costosi i massicci interventi fiscali necessari a stimolare la ripresa.

La voragine, infatti, fa paura. L’Insee – l’Istat francese – valuta che ogni mese di blocco delle attività, come quello in corso, comporti un calo del 3 per cento del Pil 2020. Se arriviamo con la quarantena a metà maggio, l’economia italiana avrà, dunque, perso il 6 per cento, sulla media annua. Più o meno quanto valutato dalla Confindustria. Ma può andare peggio. Il Cpb, il centro studi governativo olandese, ha calcolato (per l’Olanda) che una quarantena di 3 mesi taglierebbe dell’1,2 per cento il Pil nazionale. Prolungata la quarantena a sei mesi, il crollo supererebbe il 5 per cento.

Per l’Italia, che ha una economia assai più asfittica, il colpo è sicuramente più pesante: la Deutsche Bank valuta che, ancora a metà 2021, l’economia italiana viaggerà ad un passo del 3-4 per cento inferiore a quello pre-virus (che era già vicino a zero).

Allora, prima la smettiamo con la quarantena e meglio è? No, dice l’esperienza storica. Un altro studio della Fed mette a confronto città americane nell’anno della spagnola (che ebbe tre ondate, fra il 1918 e il 1919). Le città (come St. Louis) che adottarono più rapidamente le misure di quarantena più aggressive non solo ebbero meno morti, ma ripartirono, economicamente, prima e più in fretta delle città (come Filadelfia) che avevano lasciato l’epidemia estendersi e corrodere il tessuto socio-economico.

Il cuore di Milano
Il cuore di Milano

La priorità, dunque, secondo la maggioranza degli economisti, è impedire che una quarantena necessaria si traduca nel collasso dell’economia. Vuol dire mantenere i redditi delle famiglie, con la cassa integrazione nel caso dei lavoratori dipendenti, o con sussidi diretti nel caso degli autonomi (server Inps permettendo). Ma, soprattutto, vuol dire fornire alle imprese la liquidità necessaria per pagare debiti e fornitori ed evitare che falliscano o che siano costrette a licenziare i dipendenti.

E’ la diga contro la deriva che sta dietro ai dieci milioni di neodisoccupati americani. Francia e Germania si sono mosse con grande energia su questo capitolo, mettendo in campo garanzie statali in grado di sostenere prestiti alle imprese equivalenti al 12,4 per cento del Pil (Francia) e 24 per cento (Germania).

In Italia, la situazione è ancora confusa: il ministro del Tesoro, Gualtieri, ha accennato, in Parlamento, di fondi adeguati a garantire crediti alle imprese fino a 500 miliardi (non lontano dal 30 per cento del nostro Pil), ma cifre esatte e meccanismi di applicazione sono ancora da chiarire, nonostante l’urgenza di intervenire al più presto.

E’ un passaggio cruciale e ricette ardite arrivano da interlocutori che non ti aspetti. Agustin Carstens, direttore generale della Bri (tempio dell’ortodossia finanziaria) propone che i prestiti alle imprese arrivino fino a tre mesi di fatturato dichiarato nel 2019. Olivier Blanchard, ex capoeconomista del Fmi, chiede di smetterla di parlare di prestiti e suggerisce sussidi diretti – a fondo perduto – da parte dello Stato. L’ultima preoccupazione, spiega Blanchard, in questo momento è il debito pubblico.

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