Che cosa sono e a cosa serviranno le navi generazionali. Per andare alla conquista di nuovi mondi serviranno velivoli spaziali in grado di viaggiare in autosufficienza per centinaia di anni. Gli scienziati stanno cominciando a formulare le prime, fantasiose, ipotesi.
Proxima Centauri, la stella più vicina al nostro sistema solare, dista dalla Terra oltre 4,2 anni luce. Una distanza enorme, che il più veloce velivolo spaziale oggi tecnicamente immaginabile potrebbe coprire in due o tre secoli di viaggio.
Nessun equipaggio sarebbe in grado di sopravvivere a una traversata cosmica di questa durata: ecco perché diversi scienziati, in parte ispirati dai film di fantascienza, stanno lavorando a futuribili progetti di navi spaziali generazionali: velivoli in grado di viaggiare nel cosmo per centinaia di anni, trasportando i passeggeri partiti dalla Terra e poi i loro figli, e i figli dei loro figli, e i figli dei figli dei loro figli che finalmente, colonizzeranno il pianeta di destinazione.
Ma che caratteristiche dovrebbe avere un vascello spaziale del genere? Sarebbe davvero realizzabile? A cercare le risposte ha provato Angelo Vermeulen (ricercatore in sistemi spaziali, biologo e artista) con un team di ricercatori dell’Università olandese di Delft.
Arti e mestieri. Il primo punto da considerare con attenzione sarebbe la composizione dell’equipaggio: sia quello in partenza sia i successivi dovrebbero essere formati da decine di figure professionali diverse.
Dagli astronauti ai meccanici, dai medici ai programmatori, dagli scienziati agli ingegneri. Ma questo significherebbe avere a bordo anche insegnanti di ogni livello: dai maestri elementari ai professori universitari. E poi ogni nuovo nato dovrebbe essere indirizzato verso una ben definita carriera in base alle necessità del popolo in migrazione.
Nomadismo cosmico. Secondo i ricercatori l’equipaggio di questa arca del futuro dovrebbe essere composto da almeno 160 persone: al di sotto di questa soglia non sarebbe infatti possibile garantire la varietà genetica necessaria al mantenimento di una popolazione sana.
E anche così sarebbe comunque necessario controllare le unioni tra gli esploratori onde evitare accoppiamenti tra consanguinei. Una delle ipotesi potrebbe essere la netta separazione tra vita affettiva e funzioni riproduttive, che verrebbero confinate ai laboratori genetici di bordo.
Cosa beviamo? Uno dei principali problemi pratici che la nave generazionale si troverebbe a dover affrontare è quello dell’acqua: secondo l’OMS per soddisfare i bisogni vitali di un essere umano ne servono almeno 40 litri al giorno a testa, quasi 15.000 all’anno. Da dove potrebbe essere ricavata?
A oggi l’unica via sembra quella del riciclo continuo: sulla ISS ci sono già oggi speciali dispositivi che consentono di recuperare l’acqua contenuta nell’urina degli astronauti. Un’idea potrebbe essere quella di realizzare impianti di questo tipo ma molto più grandi e potenti.
Troppo pulito. Altro problema non trascurabile potrebbe essere quello dell’eccessiva sterilità degli ambienti: le navi spaziali sono prive di batteri e vivere in ambienti completamente asettici per anni o secoli potrebbe compromettere il sistema immunitario della popolazione migrante con gravi rischi per la loro salute e per quella dei discendenti.
E poi ci sono le radiazioni cosmiche: l’arca dovrà proteggere gli occupanti dalla radioattività dello spazio profondo, molto più elevata rispetto a quella che investe la ISS o altri veicoli spaziali che operano non troppo lontano dalla Terra.
Vivere in un asteroide. Il team, composto da universitari specializzati in diverse discipline scientifiche, ha ipotizzato una soluzione con le risposte a tutte queste esigenze: un curioso progetto di nave generazionale, un vascello di grandi dimensioni in parte scavato all’interno di un asteroide e in parte stampato in 3D.
L’idea è quella di realizzare un vero e proprio ecosistema in grado di convertire i rifiuti organici e la CO2 in ossigeno, acqua e cibo, mentre la struttura di roccia garantirebbe all’equipaggio una protezione ottimale dalla radioattività.
Una versione in scala di questo bioreattore è stata inviata lo scorso dicembre sulla ISS per permettere agli scienziati di studiare la fotosintesi, e quindi la produzione di ossigeno nello spazio.
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