I Fenici, popolazione cananea stanziata nell’Antichità sul territorio dell’attuale Libano, furono notoriamente i più grandi navigatori del loro tempo. A bordo delle loro grandi navi percorrevano in lungo ed in largo le acque del Mediterraneo, sempre alla ricerca di nuove rotte mercantili. Essendo commercianti, non avevano alcun interesse a conquistare altre terre: tutto ciò che desideravano era sfruttare economicamente nuovi territori, ed a tale scopo fondarono diverse colonie, la più importante delle quali, Cartagine, divenne poi una delle superpotenze del mondo pre-romano.
Per quanto i loro interessi fossero prettamente materiali, tuttavia essi dettero un grande impulso all’esplorazione del globo, e spesso le loro flotte venivano utilizzate dalle potenze dominanti del Medio Oriente per compiere viaggi di ricognizione in parti del mondo ancora sconosciute.
La più famosa di tali spedizioni avvenne intorno al 600 a.C. su iniziativa del faraone d’Egitto Neco ed ebbe come scopo addirittura la circumnavigazione dell’intero continente africano: i Fenici partirono dalle sponde del Mar Rosso ed iniziarono a scendere lungo le coste orientali del continente nero. Verso la metà dell’anno sbarcavano per piantare sementi, che poi provvedevano a mietere per assicurarsi le vettovaglie necessarie per la prosecuzione del viaggio. In questo modo, nel giro di tre anni sarebbero riusciti ad arrivare sino allo stretto di Gibilterra ed a doppiarlo, portando infine a termine la propria missione.
Erodoto di Alicarnasso, che riporta la narrazione di questa spedizione, si mostra piuttosto scettico sulla sua veridicità, ma l’elemento narrativo che egli giudica più incredibile, e cioè che ad un certo punto gli avventurosi navigatori videro il sole alla propria destra, è proprio quello che dimostra che i Fenici riuscirono quantomeno ad oltrepassare il Capo di Buona Speranza, in quanto, passando dall’altro lato dell’Africa, avrebbero avuto l’Oriente appunto alla loro destra.
Da tempo ormai c’è chi ha voluto ipotizzare che questi formidabili uomini di mare compirono un’impresa ancora più eccezionale, vale a dire la traversata dell’Atlantico e la scoperta del Nuovo Mondo.
In verità, ad una prima impressione sembra improbabile che navigatori abituati a seguire rotte che costeggiavano sempre terre emerse possano aver osato addentrarsi nelle acque dell’Oceano, ma forse in qualche occasione (forse durante la spedizione ordinata da Neco, o anche in qualche caso precedente) una nave fenicia impegnata in un viaggio lungo la costa africana fu spinta al largo da venti contrari ed approdò fortunosamente su qualche isola dei Caraibi o nel Brasile nord-orientale, ponendo poi le basi per la creazione di una nuova rotta commerciale.
A rafforzare tale ipotesi c’è la questione della controversa Pietra di Paraiba, scoperta nel 1872 presso Pouso Alto, nello stato brasiliano di Paraiba, sulla quale fu rinvenuta un’iscrizione in lingua fenicia. Anche se essa si ruppe poco dopo il rinvenimento e non fu più possibile recuperarla, una copia del testo che riportava fu inviata al visconte di Sapuachay, presidente dell’Istituto Storico di Rio de Janeiro.
La Pietra di Paraiba fu a lungo ritenuta un falso, ma nel 1960 l’epigrafista Cyrus Gordon fece notare che l’iscrizione su di essa conteneva concetti grammaticali che non erano ancora noti agli studiosi dell’epoca della sua scoperta, e ne diede la seguente traduzione: “Siamo Cananei di Sidone della città del re mercante. Abbiamo sacrificato un giovane agli dei ed alle dee celesti, nel diciannovesimo anno del nostro re Hiram e ci siamo imbarcati a Ezion-Geber nel Mar Rosso. Abbiamo viaggiato con dieci navi per due anni intorno all’Africa, quindi ne fummo separati per la mano di Baal e già non stiamo con i nostri compagni. Così giungemmo qui, dodici uomini e tre donne, alla isola del ferro, in uno nuova spiaggia che io, l’ammiraglio, controllo. Ma sicuramente gli dei e le dee ci favoriranno.”
Più recentemente, Marco G. Corsini ha proposto questa versione leggermente differente: “Noi (siamo) figli di Canaan, da Sidone, dalla città reale. Una tempesta ha gettato la nave su questa costa lontana, una terra montuosa, ed abbiamo sacrificato su di un’altura agli dei ed alle dee, nell’anno diciannovesimo di Hiram, il nostro re potente. Ci siamo imbarcati ad Ezion-Geber nel Mar Rosso e siamo salpati con dieci navi. Fummo in mare insieme per due anni, aggirando la terra di Cam, ma fummo separati dalla disputa di Baal e non fummo (più) con i nostri compagni. Così ci siamo accampati, dodici uomini e tre donne, su questa costa montuosa, sani e salvi, ma dieci sono morti.”
Dunque, tutto sembra indicare che una nave fenicia appartenente ad una flotta impegnata nella circumnavigazione dell’Africa (forse quella incaricata da Neco?), dopo aver perso il contatto con le altre in seguito ad una tempesta, sia stata spinta sino alle coste brasiliane. Forse i marinai cananei ebbero modo di esplorare ulteriormente quelle nuove terre e riuscirono poi a ritrovare la via di casa, recando con sé indicazioni utili per permettere l’apertura di una nuova rotta commerciale. Di lì a poco Cartagine divenne la principale potenza marittima del Mediterraneo occidentale e chiuse tutti i suoi mercati, ad eccezione di quelli siciliani, a commercianti e naviganti di altre popolazioni, calando un velo di segretezza impenetrabile sui suoi redditizi traffici verso occidente e diffondendo voci terrificanti su quanto si potesse incontrare in quelle acque lontane, come il mitico Mare delle Tenebre, in cui qualsiasi nave sarebbe rimasta imprigionata.
Sembra che la sconfitta e la distruzione definitiva di Cartagine, nel 146 a.C., abbiano avuto come corollario la perdita di gran parte delle scoperte geografiche acquisite dai Punici, anche se qualcosa di esse, e persino la rotta americana, dovette trapelare in qualche maniera. L’esplorazione delle isole Canarie da parte del re di Mauretania Giuba II, ad esempio, fu probabilmente resa possibile dalle conoscenze dei navigatori libo-fenici, e nella sua Naturalis Historia lo scrittore romano Plinio il Vecchio indica in 40 giorni la durata della traversata dalle Gorgadi, identificate con l’arcipelago di Capo Verde, alle mitiche Isole Esperidi. Questo lasso di tempo corrisponde praticamente con esattezza alla durata di un viaggio di una nave a vela dalle coste occidentali dell’Africa alle isole dei Caraibi, e Plinio era uomo dalla mentalità scientifica, e non certo un mitografo credulone.
Vari altri indizi lasciano intendere che nell’antichità esistessero vie di comunicazione tra le civiltà mediterranee e le Americhe, dai volti barbuti e dalle fisionomie semitiche visibili sui bassorilievi olmechi di La Venta, in Messico, alla raffigurazione di ananas e mais su mosaici, dipinti e statue di età romana a Pompei ed a Roma, ai resti di semi di girasole trovati su un relitto di nave romana del I secolo d.C., sino alle tracce di nicotina e cocaina rinvenute nel 1992 sulla mummia della sacerdotessa egiziana Henuttawy, risalente alla fine dell’XI secolo a.C..
Tutti questi indizi sono stati confutati con estrema superficialità o del tutto ignorati dalla scienza ufficiale, i cui alfieri rappresentano per fanatismo il perfetto contraltare dei tanti millantatori e mitomani che con le loro farneticazioni contribuiscono a gettare discredito su ipotesi altrimenti per nulla campate in aria.
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