L’intelligenza migliora la salute fisica e fa ammalare di meno

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L’intelligenza fa ammalare di meno. Ecco perché. Al Festival della Scienza medica di Bologna, Ian Deary, uno dei padri della cosiddetta epidemiologia cognitiva, racconta le ricerche che stanno rivelando un collegamento tra capacità cognitive, vita più lunga, e minor rischio di contrarre patologie.

È il caso di dirlo: piove sempre sul bagnato. Un’intelligenza superiore alla media non aiuta solamente ad eccellere negli studi, a trovare un lavoro migliore e, di conseguenza, guadagnare di più. A quanto pare, assicura anche una vita più lunga, e una salute di ferro. Un corpus crescente di ricerche sta rivelando un legame tra abilità cognitive nella prima infanzia, longevità, e minor rischio di contrarre patologie cardiovascolari, tumori e altre gravi patologie. Si tratta della cosiddetta epidemiologia cognitiva. Un termine coniato dallo psicologo scozzese Ian Deary, direttore del Centro per l’invecchiamento cognitivo dell’Università di Edimburgo, che oggi è in Italia, ospite del Festival della Scienza Medica di Bologna, per illustrare i risultati delle sue ricerche, e spiegare in che modo studiare abitudini e genetica delle persone più intelligenti potrebbe aiutare tutti noi a invecchiare in salute.

“L’epidemiologia cognitiva è un campo di studi che indaga come, e perché, le capacità cognitive mostrate durante l’infanzia siano associate alla salute e alla mortalità durante la vecchiaia”, spiega Deary. “Nel mio intervento di oggi presenterò alcuni dati che provengono dallo Scottish Mental Survey 1947. Un sondaggio condotto il 4 giugno del 1947 in cui quasi tutti i bambini scozzesi nati nel 1936 sono stati sottoposti agli stessi test cognitivi esattamente nello stesso giorno. In totale, il sondaggio ha coinvolto oltre 70mila bambini, e con quei dati io e il mio gruppo abbiamo svolto una ricerca, pubblicata un paio di anni fa sul British Medical Journal, in cui abbiamo messo in relazione i risultati dei test cognitivi con la mortalità dei partecipanti nei successivi 68 anni”.

La ricerca ha permesso a Deary di sondare il legame tra i livelli di intelligenza registrati a 11 anni nei bambini scozzesi, e il rischio di morte fino all’età di 79 anni. “I nostri risultati, confermati anche da quelli di altri gruppi di ricercatori, dimostrano che esiste un’associazione, se pur modesta, tra un punteggio alto nei test cognitivi durante l’infanzia e il rischio di morire a causa di malattie cardiovascolari, respiratorie, tumori legati al fumo di sigaretta, e diverse altre patologie. In parte, queste associazioni statistiche sono legate al livello di educazione e allo status lavorativo, così come dall’adozione di comportamenti salutari come non fumare. Ma in parte esiste anche una piccola sovrapposizione sul piano genetico tra intelligenza e una salute migliore”.

Se la salute delle persone intelligenti è legata evidentemente a scelte più “furbe”, come quella di adottare abitudini salutari, a lavori meno duri e una vita più agiata, almeno in parte sembra esistere anche un collegamento sul piano genetico. Alcuni geni che rendono intelligenti – insomma – potrebbero anche rendere più resistente il nostro organismo nei confronti di diverse, gravi, patologie. O, ancora, l’intelligenza potrebbe essere il riflesso di un cervello più sano, di una sorta di “salute” neuronale: in questo caso, salute fisica e neurale (intesa cosa migliori capacità cognitive) potrebbero essere le due facce di una stessa medaglia, ed essere quindi scritte negli stessi geni. Come è normale per un campo tutto sommato giovane, sono molte le domande ancora aperte. Ed è per questo che l’epidemiologia cognitiva continua ad affascinare gli esperti.

“In Danimarca hanno effettuato una ricerca di epidemiologia cognitiva su un milione di persone, in Israele su due milioni”, conDeary. “Lo scopo è identificare questa associazione tra intelligenza e salute, e penso che sia una linea di ricerca che regala grande ottimismo: guardare a come si comportano le persone più intelligenti ci darà qualche indizio per difenderci dalle malattie e per vivere più a lungo, e ci permetterà di ridurre le disuguaglianze nel campo della salute”.

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