La crisi della salute mentale tra i migranti

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Tra le tante tragedie che i migranti e i rifugiati che si riversano sull’Europa si trovano a vivere ci sono anche i disturbi mentali. Oltre al diffusissimo disturbo da stress post-traumatico, tra queste persone si segnala anche un rischio superiore alla media di ansia, depressione e schizofrenia. In Germania e in Svezia alcuni psicologi stanno valutando il problema e cercando possibili soluzioni, anche perché interventi efficaci andrebbero a tutto vantaggio dell’integrazionedi Alison Abbott/Nature

In una giornata gelida di gennaio, la psicologa clinica Emily Holmes prese una pila di quaderni vuoti e scese alla stazione centrale di Stoccolma in cerca di profughi. Non ebbe bisogno di cercare per molto. Folle di giovani dall’aria sperduta si aggiravano nella hall, in abiti troppo leggeri per quell’aria gelida. “La cosa che mi colpì di più era vedere quanto fossero magri alcuni di loro”, racconta Holmes.

Holmes, che lavora presso il Karolinska Institute di Stoccolma, stava cercando materiale per la sua ricerca, un progetto pilota sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD), fin troppo comune tra i rifugiati. Voleva vedere se erano disposti ad annotare per una settimana alcuni flashback, ricordi frammentari di un trauma che continuano a tormentare i soggetti con PTSD. Non ha faticato a trovare volontari. E quando hanno restituito i quaderni, Holmes fu scioccata nel constatare che ne avevano segnalati una media di due al giorno – molti di più rispetto ai malati di PTSD da lei abitualmente trattati. “Sentii un improvviso trasporto verso di loro”, dice. “Erano riusciti a viaggiare per migliaia di chilometri in cerca di salvezza con questo livello di sintomi”.

L’Europa è il teatro del più grande movimento di persone dopo la Seconda guerra mondiale. L’anno scorso, più di 1,2 milioni di individui hanno chiesto asilo all’Unione europea, e questi numeri sottostimano la portata del problema. La Germania, che ha fatto la parte del leone nella ripartizione della massa di persone, ritiene di aver accolto più di un milione di rifugiati nel 2015, decine di migliaia dei quali devono ancora fare ufficialmente richiesta di asilo. La maggior parte di loro proviene da Siria, Afghanistan e Iraq. Molti hanno vissuto guerra, shock, sconvolgimenti e terribili viaggi, e spesso hanno problemi di salute fisica. La crisi ha attirato l’attenzione mondiale e scatenato una bagarre politica tra i paesi che devono accordarsi per accogliere e integrare l’enorme afflusso di migranti.

La crisi della salute mentale tra i migranti
Migranti provenienti dall’Africa centrale e arrivati a Brindisi: oltre alle esperienze vissute nella terra di origine, anche il viaggio stesso è una fonte di forte stress per i migranti (Credit: ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Ciò che non è stato pienamente discusso è l’enorme impatto dei disturbi di salute mentale su migranti e rifugiati. Lo psicologo clinico Thomas Elbert, dell’Università di Costanza, in Germania, sta conducendo un sondaggio a livello locale tra i rifugiati, da cui emerge che “più della metà di coloro che sono arrivati in Germania negli ultimi anni mostra segni di disturbi mentali, e un quarto di loro soffre di PTSD, ansia o depressione, che non potranno migliorare senza un aiuto”. Precedenti ricerche hanno dimostrano che rifugiati e migranti hanno anche un rischio leggermente aumentato di sviluppare schizofrenia.

“E’ un enorme problema di salute pubblica, ed è uno scandalo che non venga riconosciuta quanto lo sarebbe un’epidemia di una malattia fisica”, spiega James Kirkbride, epidemiologo dello University College di Londra.

Medici e ricercatori stanno iniziando a prendere provvedimenti. Holmes e altri psicologi e psichiatri stanno lavorando con i rifugiati per sviluppare terapie pratiche, efficaci e a basso costo per i disturbi post-traumatici, che potrebbero essere rapidamente somministrate a questi gruppi. Altri ricercatori vogliono lavorare con i rifugiati locali per capire di più su come i diversi tipi di stress infuenzino il cervello, e per conoscere meglio la biologia di base dei disturbi psichiatrici.

I ricercatori sperano che i loro studi li aiuteranno ad affrontare altre popolazioni sfollate, e a sostenere i politici nell’accogliere i migranti. “I politici non hanno preso in considerazione la salute mentale quando hanno fatto appelli per una rapida integrazione dei rifugiati”, spiega Elbert. “E’ illusorio pensare che le persone possano imparare una nuova lingua e trovare un lavoro quando la loro mente non funziona correttamente. Se vogliamo un’integrazione rapida, abbiamo bisogno di un piano immediato per la salute mentale”.

Farsi una nuova vita
Amira è una psicologa clinica rifugiata dalla Siria. Quando nel Paese è iniziata la guerra, ha lavorato nei campi per rifugiati siriani in Giordania. Ha visto persone che erano state aggredite fisicamente, donne violentate e bambini abbandonati. I sintomi di PTSD erano evidenti, e lei sa che molti rifugiati soffrono anche di depressione e ansia. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse utilizzato.

E’ arrivata in Svezia alla fine di dicembre 2015 e voleva aiutare altri rifugiati, ma inizialmente non le è stato permesso di lavorare. Ha cercato di stabilire contatti a Stoccolma e ha frequentato un corso di lingua per rifugiati; si sentiva molto sola, ma ha tirato avanti. Ora ha un contratto per sei mesi. “Ho incontrato molti bambini che hanno sperimentato la guerra”, dice. “Ci sentiamo tristi per quello che i nostri figli pensano e sentono. Ho un bambino e cerco di proteggerlo”.

I ricercatori hanno già molti elementi per comprendere la salute mentale delle popolazioni migranti e rifugiate in tutto il mondo. (Le Nazioni Unite definiscono come rifugiati le persone in fuga da un conflitto armato o da una persecuzione e come migranti le persone che si spostano per cercare di migliorare la propria vita; i richiedenti asilo, infine, sono coloro che cercano di ottenere lo status ufficiale di rifugiato; tuttavia a volte si utilizzano definizioni diverse.)

Una meta-analisi del 2005 di studi condotti per lo più nel nord Europa ha mostrato che i migranti di prima e seconda generazione sono molto più a rischio di schizofrenia rispetto ai non migranti, e che quelli provenienti dai paesi in via di sviluppo sono più a rischio di quelli provenienti da paesi sviluppati.

Un ampio studio di coorte pubblicato in marzo ha riguardato 1,3 milioni di persone arrivate in Svezia prima del 2011. Tra i rifugiati, l’incidenza della schizofrenia e altri disturbi psicotici era tre volte superiore a quella degli svedesi nativi, e del 66 per cento più elevata di quella dei migranti che non erano rifugiati. (Il rischio complessivo per i rifugiati e i migranti rimane ancora relativamente basso, intorno al 2-3%.) Kirkbride, coautore dello studio, afferma che una più recente analisi dei dati sulla migrazione nel Regno Unito indica che il livello di aumento del rischio di disturbi psicotici può dipendere dall’età all’epoca della migrazione e che i bambini sono potenzialmente a maggior rischio.

La crisi della salute mentale tra i migranti
Rifugiato siriano con i suoi tre figli nel campo di Ritsona, a nord di Atene: i bambini sono i soggetti a maggior rischio di disturbi mentali (Credit: LOUISA GOULIAMAKI/AFP/Getty Images)

I più vulnerabili sembrano coloro che sono più diversi rispetto al contesto in cui si trovanoi. La meta-analisi del 2005 ha mostrato che i migranti di colore in una popolazione a maggioranza bianca avevano un rischio di disturbi psicotici quasi cinque volte maggiore. E il rischio è più alto per i migranti che vivono in quartieri con una bassa percentuale di residenti del proprio gruppo etnico rispetto a quelli circondati da molte persone della loro etnia.

Lo psichiatra Andreas Meyer-Lindenberg del Central Institute for Mental Health di Mannheim, in Germania, è tra coloro che cercano di capire i meccanismi cerebrali coinvolti. Egli ha già studiato altre popolazioni con un rischio di psicosi superiore alla media, per esempio persone residenti in città e minoranze etniche. Il suo lavoro indica che il cervello di queste persone è eccessivamente sensibile allo stress sociale: è come se ci fosse un feedback di disapprovazione.

Grazie a un finanziamento concesso nel mese scorso dal governo dello stato del Baden-Württemberg, Meyer-Lindenberg prevede di estendere i suoi studi reclutando 200 rifugiati e 200 persone della comunità locale. I rifugiati useranno smartphone per annotare i propri d’animo, per esempio la sensazione di diffidenza, e saranno in seguito sottoposti a scansioni cerebrali. L’obiettivo finale è quello di trovare nei dati degli schemi che individuino le persone con un anomala elaborazione dello stress sociale, e che possono quindi avere un maggior rischio di malattia mentale.

Anche Jean-Paul Selten, psichiatra presso l’Università di Maastricht, nei Paesi Bassi, sta studiando la natura perniciosa dello stress sociale. Egli ritiene che fattori di stress quali l’esclusione sociale aumentino il rischio di psicosi, modificando la sensibilità del cervello al neurotrasmettitore dopammina.

I piani di integrazione della Germania, codificati in una legge entrata in vigore ad agosto, riguardano la distribuzione di rifugiati in tutto il paese per evitare la creazione di grandi comunità etniche isolate. Questa misura potrebbe essere problematica, se dovesse aumentare l’isolamento delle persone, ma Meyer-Lindenberg dice che “in realtà è una buona politica” – perché permette ad altre persone della comunità di venire a contatto con i rifugiati, e questo di solito riduce la xenofobia, un’altra importante fonte di stress sociale.

I politici considerano l’integrazione essenziale per la sicurezza, tra le altre cose. Alcuni attacchi terroristici in Europa nel corso degli ultimi due anni sono stati condotti da rifugiati o altre persone con un’esperienza di migrazione noti per avere una storia di problemi psichiatrici. Ma medici e ricercatori sono estremamente cauti nel mettere in collegamento rifugiati o migranti e atti terroristici, sottolineando che ben pochi di quelli con problemi di salute mentale diventano violenti, a prescindere dalla loro origine. Il problema della sicurezza accentua semplicemente la necessità di aiutare tutti coloro che hanno problemi di salute mentale in tutta la popolazione, dicono.

Lo stress dei cambiamenti radicali
Gli psicologi definiscono tre fattori di stress estremo per i rifugiati: i traumi, spesso violenti, vissuti nei paesi d’origine, che li portano a migrare altrove; il viaggio stesso; l’arrivo, quando le persone giungono in un paese straniero. “La fase della ‘post-migrazione’ sta diventando sempre più importante”, spiega lo psichiatra Malek Bajbouj, dell’Ospedale universitario Charité di Berlino. “Improvvisamente si rendono conto che hanno perso tutto, non hanno alcun controllo su molti aspetti della loro vita e alcuna posizione sociale.”

Nel mese di febbraio, Bajbouj – che è di origine siriana e parla arabo – e due colleghi di altri reparti hanno aperto un centro di smistamento per rifugiati con problemi di salute mentale, il primo del suo genere in Germania. Si tratta di un tranquillo palazzo, un ex ospedale nel centro di Berlino, da cui sono già transitate 1.500 persone in difficoltà. “I rifugiati possono arrivare in Germania pieni di speranza, ma poi si ritrovano bloccati per mesi nei campi, apparentemente senza prospettive,” dice. “Quando chiediamo loro quali sono i principali fattori di stress sono, in genere fanno riferimento non ai loro ricordi traumatici, ma alle loro frustrazioni attuali.”

La più grande sfida per Bajbouj e gli altri è l’enorme massa di persone bisognose di aiuto, che vanno assistite in modo rapido ed economico, in modo anche da alleggerire la pressione sugli operatori sanitari iperstressati. Al centro di smistamento, tre psichiatri valutano rapidamente i migranti, identificando quelli che necessitano di un aiuto psichiatrico di primo livello o un intervento di maggiore intensità, e infine quelli che possono essere gestiti da operatori sociali.

Un’enorme parte dello sforzo va in formazione sulla gestione dello stress e la conoscenza della salute mentale. “Alcune persone dalle aree rurali ritengono responsabile dei loro stati d’animo il Djinn, un ente soprannaturale e maligno”, dice Bajbouj, “mentre noi insegnamo loro che sintomi come l’insonnia e la depressione hanno una base biologica e possono essere trattati.”

La crisi della salute mentale tra i migranti
Rifugiato siriano ringrazia la cancelliera tedesca Merkel per le sue politiche di accoglimento: la Germania è la nazione dell’Unione europea che sopporta la maggior quota di migranti (Credit: Sean Gallup/Getty Images)

Elbert vorrebbe vedere simili sistemi di triage in tutta la Germania. In un articolo che sarà pubblicato il mese prossimo, lui e un gruppo di colleghi propongono un approccio a tre livelli. I rifugiati inizialmente dovrebbero essere aiutati da soggetti bilingue e non esperti, idealmente migranti o rifugiati stessi, formati per guidare le persone attraverso il sistema sanitario tedesco (primo livello) o per offrire un counselling in caso di trauma (secondo livello). I più bisognosi dovrebbero passare al terzo livello, gestito da psicologi qualificati o psichiatri.

Pace della mente
La formazione di persone non esperte sembra funzionare in situazioni di emergenza. Elbert, insieme con Sarah Ayoughi, psicologa clinica dell’organizzazione di cura psicosociale Ipso, ha condotto uno studio randomizzato controllato di persone con problemi di salute mentale nel nord dell’Afghanistan che hanno ricevuto una consulenza psicosociale – un tipo di psicoterapia – tenuta da medici locali senza un precedente curriculum di studi in psicologia o psichiatria, ma appositamente formati per questa attività. Dopo sole 5-8 sedute, sono migliorati i sintomi di depressione e ansia per 3-7 mesi.

E diversi studi, tra cui uno studio randomizzato e controllato del 2011 su ex bambini soldato nel nord dell’Uganda, mostrano che un approccio chiamato Terapia dell’esposizione narrativa (NET), somministrato da consulenti non esperti ma addestrati, è in grado di ridurre la gravità dei sintomi di PTSD. Elbert ha iniziato a sviluppare la NET con la moglie Maggie Schauer, anche lei psicologa clinica dell’Università di Costanza, quando stavano lavorando con i rifugiati in Kosovo alla fine del 1990. La tecnica sfrutta le nuove scoperte sul legame tra i ricordi e i circuiti cerebrali della paura. Una persona traumatizzata lavora con un terapeuta o un consulente per la costruzione di una narrazione della propria vita che colleghi le esperienze traumatiche al momento e al luogo corretti.

Non sarà semplice introdurre in Germania questo approccio pragmatico a tre gradini. Le associazioni professionali sono contrarie a consentire alle persone senza qualifiche formali di dare una mano somministrando psicoterapie, e varie legislazioni potrebbero dare loro ragione. Ma mentre il governo federale medita su cosa fare, stanno per partire alcuni programmi con il sostegno del governo regionale. Schauer ha ricevuto 100.000 euro per verificare se la NET funziona sui rifugiati in Germania come nei paesi in guerra. E Ayoughi organizza la formazione dei rifugiati a Erfurt, in Germania, con un ulteriore sostegno da parte della Google Foundation.

Bajbouj pensa che la volontà politica di inserire i rifugiati nelle attività lavorative potrà finire per facilitare l’introduzione di norme meno restrittive sulla psicoterapia. E c’è un altro modo economico per fornire cure di salute mentale: utilizzare Internet e app. Si sta sviluppando una versione in lingua araba delll’app per smartphone PTSD Coach, che fornisce una formazione, un piano di emergenza personalizzato, un’autovalutazione e 25 tecniche diverse per regolare lo stress. Bajbouj la sta testando nell’Arab Outpatient Centre che ha aperto alla Charité nel 2008.

Holmes spera che la tecnologia possa aiutare anche a Stoccolma. L’obiettivo del suo lavoro è verificare se è possibile inibire i flashback emotivi legati alla PTSD se una persona gioca immediatamente a un videogioco su cellulare che entra in competizione per lo spazio cognitivo del cervello, una tecnica che ha visto funzionare nei test di laboratorio. “La cosa importante ora è sviluppare nuovi semplici approcci alla terapia che possano essere portati su grande scala per dimostrare che sono utili”, dice.

Anche la Svezia, che ha ospitato un numero relativamente elevato di profughi, sta avviando programmi di salute mentale. All’inizio di quest’anno, le autorità locali hanno sviluppato un piano per rendere più facile ai rifugiati accedere a un supporto: i controlli sanitari includeranno altre domande sullo stato mentale, e quelli individuati come bisognosi saranno indirizzati a un sostegno psicologico o psichiatrico.

Il flusso di rifugiati e migranti quest’anno è diminuito, in parte perché la Turchia ha accettato di riprendere chi è entrato illegalmente nei paesi dell’UE da quel Paese. Ma la gente continua ad arrivare. Lo scorso mese di agosto, più di 18.000 rifugiati sono entrati in Germania per chiedere asilo. E anche se la crisi attuale si sta attenuando, conflitti, povertà, catastrofi naturali e cambiamenti climatici inevitabilmente torneranno ad alimentare nuove ondate migratorie in tutto il mondo. “Dalle crisi nei paesi in guerra abbiamo imparato alcune lezioni sulla salute mentale”, dice Ayoughi, “e le possiamo applicare nella crisi dei rifugiati in Europa, se otteniamo sostegno”. E forse le lezioni apprese in Europa potrebbero tornare utili nelle zone di guerra.

Bajbouj è stata chiamato a far parte di un “think-tank per le migrazioni’, un’istituzione permanente in Germania, dove gli esperti di diverse discipline possono riunirsi per capire che cosa dev’essere fatto. “Le sfide non sono solo sulla salute mentale, ma anche sull’istruzione, sull’integrazione nel mondo del lavoro e molto di più”, dice. “Ma l’impatto sulla salute mentale è su tutto”.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 10 ottobre 2016. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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