Gli antidepressivi, efficaci, ma non indiscriminatamente.

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Le cose da sapere sull’ultimo grande studio sugli antidepressivi. Un’importante revisione pubblicata su Lancet conferma che i 21 più diffusi sono più efficaci del placebo nel trattare la depressione. Ma l’entusiasmo con cui la notizia è stata ripresa non mette in luce i loro limiti, che si notano nei casi in cui il disturbo è lieve o moderato (la maggior parte).

Gli antidepressivi sono realmente efficaci, e dovrebbero essere prescritti a milioni di persone nel mondo: negli ultimi giorni potreste esservi imbattuti in titoli di questo tenore, e in articoli che riprendono con toni entusiastici il risultato di un autorevole studio pubblicato su Lancet.

Si tratta di un’importante revisione sull’accettabilità e l’efficacia dei 21 più comuni farmaci antidepressivi nel trattamento di adulti con disturbo depressivo maggiore o depressione clinica, uno dei più frequenti disturbi dell’umore.

Analisi minuziosa. Un team internazionale di 18 esperti coordinato da Andrea Cipriani, psichiatra italiano che insegna all’Università di Oxford, ha analizzato i risultati dopo 8 settimane di trattamento in oltre 500 trial farmacologici che comparavano un antidepressivo a un placebo, o due diversi antidepressivi. Lo studio è durato sei anni e ha considerato dati su oltre 116 mila pazienti con depressione. Sono stati presi in considerazione tutti i dati, pubblicati e non, a cui ricercatori sono riusciti ad accedere.

Tutti i farmaci considerati sono risultati più efficaci del placebo nel trattamento della depressione, alcuni in misura maggiore di altri. Un risultato importante per una classe di farmaci spesso considerata non più efficace di pillole di zucchero, e penalizzata da un pregiudizio ideologico (che talvolta fa sì che gli antidepressivi non vengano prescritti, o che i pazienti non vogliano assumerli).

Ma, come argomentano molti esperti del settore, sarebbe troppo semplice considerare solo questo aspetto del problema.

Quali pazienti? Partiamo dall’efficacia: la maggior parte degli studi che contesta il funzionamento degli antidepressivi sostiene che non funzionino per le forme di depressione lieve o moderata. La revisione considera i trial su pazienti con forme maggiori e ricorrenti: per questo gruppo di persone è dunque una buona notizia, ma rimane che non vale per tutte le forme di depressione.

Le forme lievi sono più diffuse di quelle gravi, quindi la capacità di questi farmaci di aiutare la maggior parte delle persone affette da depressione è ancora tutta da dimostrare. E considerando i possibili effetti collaterali – dal calo della libido all’insorgenza di ansia e agitazione – non possiamo realmente sapere se per i casi moderati ne valga realmente la pena.

Quali numeri? C’è poi il problema dei dati di partenza: come scrive Clare Wilson sul New Scientist, «l’esperienza insegna che le case farmaceutiche possono tagliare e giocare con i dati per far sembrare i loro risultati migliori di quelli che sono».

Per esempio nel 2001 uno studio sulla paroxetina, un antidepressivo non considerato nella revisione di Lancet, sosteneva che questa non avesse più effetti collaterali del placebo. Ma nel 2015 alcuni ricercatori rividero quei dati e scoprirono che questa sostanza era legata a maggiori casi di autolesionismo e minacce di suicidio.

Interruzione e durata. Un altro problema è che molte persone trovano difficile interrompere la terapia con antidepressivi senza incorrere a sintomi di astinenza. In genere viene consigliata una diminuzione graduale, ma le pillole spesso non sono prodotte in dosi abbastanza piccole da consentirlo. Lo studio non considera questo, né l’efficacia degli antidepressivi per disturbi d’ansia e fobie, altre condizioni per cui talvolta sono prescritti. Inoltre non dice nulla sui trattamenti superiori alle otto settimane, che non sono stati considerati.

Esperienza soggettiva. Come è possibile una tale confusione su una stessa classe di farmaci? Il motivo risiede in parte nel fatto che agiscono in modo diverso su ciascuno. Alcuni pazienti possono sentirsi sollevati dall’attenuazione delle emozioni che provocano, altri lo detestano e dicono di sentirsi alla stregua di zombie.

Bianco o nero. Il dibattito si fa polarizzato, e questo è sempre pericoloso – e poco “scientifico”: da un lato c’è chi li demonizza, finendo per opporsi a un aiuto medico che in certi casi è salvavita; dall’altra c’è chi li ritiene indispensabili come l’insulina per il diabete, dimenticando altri aiuti chiave come la psicoterapia, o i limiti a cui abbiamo accennato.

Come conclude Wilson, «per chi ha un interesse personale in questi argomenti, deve essere frustrante il fatto che ogni mese il pendolo dell’opinione sembri oscillare da un lato all’altro. Come spesso accade con la scienza, la realtà si trova da qualche parte, nel mezzo».

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