La proposta più intrusiva, consentirebbe alle forze dell’ordine accesso alle informazioni direttamente nel cloud, cioè sulla nuvola, delle aziende tecnologiche. Si tratterebbe di “una misura d’emergenza”, precisa Jourova, che “richiederebbe maggiori garanzie per proteggere la privacy delle persone”. Verrebbe adottata quando le autorità non conoscono i server che custodiscono i dati o c’è il rischio che questi ultimi vengano persi.
La seconda opzione obbligherebbe le compagnie a fornire le informazioni richieste dalle forze dell’ordine di un altro paese dell’Unione. Mentre l’alternativa meno invadente prevede che le autorità di uno Stato membro possano chiedere a un provider IT di un altro Stato membro di fornire questi dati.
Attualmente, per esempio – scrive Reuters – la polizia in Italia che sta cercando di ottenere prove elettroniche custodite in Irlanda deve chiedere alle autorità irlandesi di recuperarle. Un processo farraginoso. La possibilità di rendere più snello il meccanismo preoccupa le compagnie digitali: potrebbe mettere a rischio la privacy degli utenti e disincentivarli dall’uso dei servizi cloud.
Si prepara un ennesimo
braccio di ferro tra, da un lato, le forze dell’ordine e, dall’altro, i big dell’hi-tech? Di certo, le aziende tecnologiche stanno subendo una crescente pressione che le vuole maggiormente collaborative verso le autorità in nome della sicurezza. Di recente Facebook è stata duramente criticata per aver rifiutato di dare accesso ai messaggi finali su WhatsApp di
Khalid Masood, l’attentatore di Westminster. E ogni nuovo attentato, diventa pretesto di una nuova ondata di proposte tecno-restrittive. Basti pensare che in Francia, dopo la strage di
Charlie Hebdo, è stata adottata
una legge liberticida, paragonata al Patrioct Act statunitense post 11 settembre 2001.
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