Il mistero dei pianeti intermedi. Gli astronomi sono sconcertati dalla scarsità nella galassia di pianeti che abbiano dimensioni comprese tra 1,5 e due volte quelle della Terra. Questa lacuna potrebbe essere dovuta a un campione statistico ancora insufficiente oppure potrebbe suggerire alcuni scenari per la formazione planetariadi Rebecca Boyle / QuantaMagazine
Dopo la formazione del Sole, polveri e gas lasciati dalla sua nube natale hanno lentamente iniziato a muoversi in vortice fino a formare gli otto pianeti di oggi. Gli oggetti rocciosi, più piccoli, fluttuavano nelle vicinanze del Sole mentre giganteschi mondi gassosi restavano nelle zone più remote del sistema. Una versione di questo processo si è ripetuta attorno alle innumerevoli stelle della galassia, forgiando un gran numero di pianeti in un ampio spettro di dimensioni, con l’eccezione, a quanto pare, di mondi appena un po’ più grandi della Terra.
Il più recente telescopio della NASA che va a caccia di pianeti, il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), conteggia sempre più esopianeti, ma una misteriosa lacuna nelle loro dimensioni, identificata per la prima volta nel 2017, continua a resistere. Questa lacuna dimostra che gli scienziati hanno bisogno di idee nuove per spiegare la formazione dei pianeti, sia nel cosmo in generale sia nelle regioni più vicine.
Dal suo lancio nell’aprile 2018, gli astronomi hanno usato TESS per trovare centinaia di possibili pianeti attorno alle stelle più vicine, fra cui, finora, 24 mondi confermati. La galassia sembra ospitare tantissimi pianeti piccoli, specialmente quelli che hanno da due a quattro volte le dimensioni della Terra, e altri di dimensioni prossime a quelle della Terra. Ma per qualche motivo, i pianeti con un raggio compreso tra 1,5 e due volte quello terrestre sono rari.
La scarsità di pianeti in quella gamma, nota come “Fulton gap”(dal nome dell’autore principale dell’articolo che ha segnalato il fenomeno), è apparsa per la prima volta nelle scoperte del telescopio spaziale Kepler, che è andato a caccia di esopianeti per quasi un decennio prima di passare il testimone a TESS. Anche se quest’ultimo non ha ancora nel suo “paniere statistico” un numero sufficiente di pianeti per confermare o smentire il Fulton gap, la tendenza è continuata, e gli astronomi non si aspettano che la lacuna scompaia.
In un articolo pubblicato in aprile su “Astrophysical Journal Letters”, per esempio, un gruppo diretto da Diana Dragomir, astronoma del Massachusetts Institute of Technology (MIT) che lavora sui dati di TESS, ha riferito la scoperta di un sistema stellare che ospita due pianeti da entrambi i lati di questa lacuna planetaria. Uno è un “mini-Nettuno” con raggio pari a 2,6 volte quello terrestre, e l’altro un piccolo mondo alieno grande circa il 90 per cento del nostro pianeta, il primo di dimensioni abbastanza simili a quelle terrestri nel catalogo TESS.
Secondo Dragomir, la lacuna dei raggi suggerisce possibili regole sulla formazione dei pianeti, e su quello che accade ai pianeti stessi fin dall’inizio. Poiché l’atmosfera di un pianeta può comprendere una parte significativa del suo raggio, molte idee si concentrano su quello che potrebbe accadere a quell’atmosfera. Uno scenario possibile, dice Dragomir, è l’opposto dell’effetto Goldilocks (o «riccioli d’oro»): i pianeti rocciosi di medie dimensioni dotati di un’atmosfera non possono resistere a lungo: “O sono abbastanza grandi da conservare la propria atmosfera oppure se, sono di dimensioni intermedie, la perdono del tutto in tempi abbastanza brevi. “E’ come nel tiro alla fune: è davvero difficile restare nel mezzo”.
Anche se una qualche forma di perdita dell’atmosfera è un’ipotesi ragionevole, è solo una delle tre idee generali in campo, osserva Sara Seager, astronoma del MIT e vice direttore scientifico della missione TESS. Un’altra teoria sostiene che il gap sia una conseguenza diretta dalla genesi planetaria, e lo collega alla posizione o alla composizione del gas e delle polveri rimasti dopo la nascita della stella. Oppure, come propone una terza teoria, gli stessi processi di raffreddamento dei pianeti potrebbero farne evaporare le atmosfere, con un effetto di perdita di massa alimentata dal nucleo: in una ricerca dello scorso anno, Akash Gupta e Hilke Schlichting, entrambi dell’Università della California a Los Angeles hanno dimostrato che, poiché pianeti di certe dimensioni irradiano calore dall’interno verso lo spazio, la loro atmosfera viene spazzata via, e questo potrebbe è portarli al margine inferiore della lacuna.
Il gap aggiunge dettagli ai modelli statistici che stanno emergendo. Gli astronomi stanno scoprendo che in molti sistemi di esopianeti, anche nel nostro “cortile di casa”, i mondi più piccoli tendono a orbitare vicino alle loro stelle, mentre quelli più grandi sono più lontani. La vicinanza dei piccoli pianeti alle stelle potrebbe essere una delle ragioni per cui sono piccoli, dice Seager. E’ possibile che all’inizio fossero grandi come i loro fratelli più lontani, ma a causa del calore bruciante e della radiazione ultravioletta delle loro stelle potrebbero aver perso l’atmosfera, e quindi molta massa.
Gli scienziati pensano che qualcosa del genere sia accaduto a Marte. All’inizio aveva un’atmosfera più spessa, ma una volta perso il campo magnetico protettivo, il Sole è stato libero di soffiare via lentamente quell’atmosfera. Anche la Terra sta ancora perdendo parte del suo “guscio” di idrogeno, dice Seager.
”Alcuni degli altri sistemi potrebbero avere storie iniziali ancora più drammatiche”, prosegue. “In futuro vogliamo dare un’occhiata alle loro atmosfere, e forse questo ci darà un’idea più chiara.”
Per quanto riguarda la questione della varietà degli esopianeti, Seager dice che gli astronomi non sono ancora in grado di dire come sia l’interno della maggior parte di essi, anche se si sta cercando di scoprirlo. In particolare, si dibatte sui pianeti con dimensioni da due a quattro volte quelle della Terra, soprannominati super-Terre, o a volte mini-Nettuni. Alcuni astronomi pensano che siano sfere rocciose avvolte da spesse atmosfere di idrogeno gassoso, altri sostengono che siano immersi nell’acqua, allo stato solido, liquido o di vapore.
Il mese scorso, gli astronomi diretti da Li Zeng, già studente di Seager e ora alla Harvard University, hanno riferito i risultati di simulazioni al computer che suggeriscono che questi pianeti comuni siano mondi acquatici. Alcuni potrebbero essere composti fino al 50 per cento di acqua in una varietà di forme esotiche: l’acqua potrebbe essere fluida fino in fondo o compressa in ghiaccio ad alta pressione, come nella fase appena scoperta chiamata “ghiaccio superiore”, a migliaia di chilometri sotto la superficie, dice Zeng.
“Questi ghiacci ad alta pressione sono simili alle rocce silicatiche nelle profondità del mantello terrestre, calde e dure”, ha scritto Zeng in un’email. “Questi oceani sono profondissimi e insondabili. Sono mondi diversi dalla nostra Terra.”
Secondo Zeng, queste super-Terre o mini-Nettuni potrebbero essere più comuni dei pianeti del nostro sistema solare, e potrebbe non esserci un posto come casa nostra. Ma Dragomir è più prudente. Osserva che Kepler ha avuto quasi un decennio per individuare schemi nella sua cornucopia di pianeti, mentre TESS ha appena iniziato il suo lavoro. Kepler ha studiato una piccola porzione di cielo nella costellazione del Cigno, TESS scruterà l’intero cielo, un’area 400 volte più vasta del campo visivo di Kepler, concentrandosi sulle stelle luminose e vicine, che sarà poi possibile osservare e studiare con telescopi a terra.
Dragomir è in attesa delle osservazioni a lungo termine di TESS sui pianeti che orbitano a grandi distanze dalle loro stelle. Questi mondi sono più difficili da vedere per semplici ragioni geometriche. TESS rileva la presenza di un pianeta studiando le variazioni nella luminosità di una stella, che indicano il passaggio di qualcosa davanti a essa. I pianeti che orbitano a grandi distanze dalla stella impiegano molto tempo a completare il passaggio, creando una variazione prolungata che è più difficile da rilevare, e attenuando meno la luce della stella.
Voler trarre adesso solide conclusioni sui tipi di pianeti che si formano e non si formano, dice, “è come osservare l’uno per cento di un pagliaio e dire: Oh, non c’è nessun ago”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2019 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
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