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Il web come bene comune non è un’utopia. Cory Doctorow, scrittore e attivista, individua nell’interoperabilità la via necessaria per costruire una rete più giusta. Cory Doctorow non si risparmia. È uno scrittore di fantascienza di successo, è un pioniere dei blog, è un attivista che si batte per la giustizia sociale e la salvaguardia dell’interpretazione aperta e libera di internet ed è un saggista che si dedica con attenzione straordinaria a comprendere le conseguenze delle norme che regolano la vita digitale. Chi lo incontra per la prima volta non può che restare profondamente colpito dalla sua disponibilità.

E chi poi inizia una corrispondenza con Doctorow non può che restare a bocca aperta per la velocità con la quale riesce a rispondere ai messaggi di mail che riceve, pur essendo il suo indirizzo di posta elettronica pubblico e la sua fama quella di un personaggio di rilevante notorietà. In vista della sua conferenza (il 21 aprile 2024) alla prossima Biennale Tecnologia di Torino, ha trovato il tempo di parlare con Nòva, mentre si occupava del tour in California per la presentazione del suo nuovo romanzo, «The Bezzle», il secondo della serie centrata sulle vicende del revisore finanziario forense Martin Hench.

In preparazione dell’intervista, Doctorow ha confermato la sua visione profondamente critica ma costruttiva del mondo digitale che naturalmente vede come un ecosistema la cui evoluzione non è definita soltanto dalla dimensione tecnologica, ma piuttosto dalla complessità delle dinamiche sociali ed economiche sottostanti. E ha chiesto come un favore di essere per una volta esentato da domande sull’intelligenza artificiale, un argomento che considera «persino più stupido del bitcoin». Naturalmente, così è avvenuto: ma le motivazioni di questo giudizio sono indirettamente emerse nella conversazione. E si sono rivelate molto istruttive.

Come si è evoluto il web rispetto alle origini

Il web come bene comune non è un’utopiaDoctorow rappresenta, in effetti, una versione contemporanea della cultura digitale originaria. Il web era nato come un bene comune. I valori degli scienziati del Cern di Ginevra – dove è stato progettato come sistema per facilitare l’uso di internet come strumento per la condivisione della conoscenza – si sono riversati nella cultura di chi lo ha adottato all’inizio dell’epopea digitale.

Poi, lentamente, molto è cambiato. Nella seconda metà degli anni Novanta, la decisione dell’amministrazione americana guidata da Bill Clinton e Al Gore di deregolamentare le attività economiche che si sviluppavano sul web e conseguente accelerata commercializzazione della rete, attirò ingenti capitali finanziari e lanciò una fase molto diversa.

Tra bolle speculative e grandi innovazioni, il valore reale della rete si è accresciuto, quasi cinque miliardi di persone si sono connesse, una decina di gigantesche imprese hanno preso il controllo della gran parte della ricchezza generata in Occidente dalle attività digitali, i diritti delle persone che lasciano i loro dati in quelle piattaforme non sono stati particolarmente salvaguardati. Ma l’obiettivo di salvaguardare e coltivare quel bene comune del web non è certo scomparso. E che cosa vede Doctorow davanti a noi, da questo punto di vista?

La trappola delle big tech

Uno scrittore di fantascienza non prevede il futuro come Nostradamus» dice Doctorow: «Cerca alternative». E un attivista? «Crede nella possibilità che l’azione umana possa realizzare l’alternativa più giusta». Mentre un saggista: «Studia le forze che facilitano il raggiungimento degli obiettivi». Quali forze? «Come dice Lawrence Lessig, è più facile che qualcosa succeda se è profittevole, legale, tecnologicamente possibile e accettabile secondo le norme sociali». Big Tech ha approfittato di queste regole, evidentemente. Possono riuscire a cavalcarle anche coloro che cercano di sviluppare una rete aperta, libera, interoperabile?

Doctorow crede che la strategia dell’interoperabilità sia potentissima. Secondo lui, di fatto, diversi miliardi di utenti delle grandi piattaforme digitali si sono trovati intrappolati nella versione della rete definita dalle strategie di Big Tech. Ma la via della liberazione è chiara: immaginare le alternative, chiarirsi le idee su quali sono le possibilità più adatte per lo sviluppo umano, definire gli obiettivi e credere nella possibilità di fare qualcosa di importante per realizzarli.

«Le leggi antitrust sono le regole fondamentali. Vanno fatte valere. Non soltanto per difendere i consumatori: ma anche per difendere i lavoratori e i cittadini. E intanto la società può lavorare per costruire la rete giusta: quella che si muove all’insegna dell’interoperabilità». La chiave per ricreare una rete aperta e innovativa è che gli utenti possano sempre cambiare tecnologia. Il che avviene se nessuna tecnologia può chiudere i suoi utenti in uno spazio dal quale non possono uscire.

Interoperabilità e antitrust al servizio dei cittadini

«È un obiettivo molto pratico» dice Doctorow. «La libertà degli utenti è una conquista possibile. Le Big tech non sono tanto sofisticate da avere messo in piedi un sistema di controllo delle menti insuperabile. Semplicemente si muovono molto velocemente. E questo mette in grandi difficoltà i propugnatori di alternative».

La risposta di Doctorow è articolata: un’antitrust al servizio dei cittadini, un ecosistema di innovatori che trovano il modo di generalizzare l’interoperabilità, un nuovo sviluppo di corpi intermedi e sindacati. Perché non è la tecnologia a determinare il futuro. È la società, con le sue dinamiche profonde, che torce anche la tecnologia nella direzione che ha scelto di seguire. E questo vale anche per l’intelligenza artificiale.

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