Marijuana, Big Tobacco del XXI secolo: il grande business della legalizzazione. Crescono a due e tre cifre i valori delle aziende Usa legate alla vendita di cannabis per uso terapeutico. E ora gli Stati iniziano a permettere anche quello ricreativo. La stessa proposta tornata di attualità in Italia. Ne parlano di più – e spesso con entusiasmo – magistrati e poliziotti che industriali e consumatori. Anche in questi giorni, in cui il dibattito in Italia si è riacceso, l’attenzione rimbalza fra commissariati, tribunali e carceri. Ma la legalizzazione della marijuana è molto di più. C’è chi dice che sarà la Big Tobacco del XXI secolo e chi spia, nei segnali che vengono dai paesi in cui la vendita è già legale, la sopravvivenza della cultura libertaria a cui l’hanno associata i baby boomers. In ogni caso, è un boom in attesa di esplodere.
La mutazione genetica del commercio di una droga, ancora ieri, messa al bando, però, è già iniziata. Come quella dei suoi protagonisti. Niente a che vedere con personaggi coloriti e sinistri, come El Chapo. Qui sono tutte persone serissime, molto rispettabili. C’è un medico inglese, che ha dedicato tutta la vita alla ricerca. Un miliardario indiano, pur molto chiacchierato per le sue scorrerie finanziarie. Due canadesi: un piccolo genio dell’elettricità e il presidente di una società di pattinaggio. E un americano di Boston, finito nel gruppo per aiutare un amico. Nessuno di loro accetterebbe di essere definito un boss. Sono i presidenti, fondatori, leader di società quotate in Borsa anche per miliardi di dollari, in testa alle classifiche di chi smercia e tratta, in modo assolutamente legale, marijuana. Se mai ci sarà, sulle orme di Big Tobacco, una Big Maria, o Big Pot, come la chiamano gli americani, i protagonisti bisognerà cominciare a cercarli qui.
Il più grosso è Geoffrey Guy, il medico inglese alla testa di Gw Pharmaceuticals, che in Borsa vale quasi 3 miliardi di dollari, secondo la classifica stilata da Viridian Capital Advisors. Poi c’è il canadese Bruce Linton, quello della società di pattinaggio, che guida Canopy Growth, quasi 800 milioni di dollari (Usa) di capitalizzazione alla Borsa di Toronto. Il terzo è il miliardario indiano John Kapoor, fino a pochi mesi fa ufficialmente alla guida di Insys Therapeutics, 664 miliardi di dollari di valore in Borsa. E un altro canadese, Terry Booth, una lunga esperienza nell’elettricità e nel software e ora alla guida di Aurora Cannabis, 433 miliardi di dollari (Usa) di capitalizzazione alla Borsa di Toronto. Il più rampante e il più ambizioso, però, è l’ultimo arrivato, Tim Keogh, un allampanato bostoniano, che, frustrato per non essere riuscito ad aiutare con la terapia antidolore un amico malato, ha creato AmeriCann.
Nel mondo anglosassone lo chiamano il “cannabusiness”. Non solo è in Borsa: gli hedge fund fiutano l’affare. Tribeca, il fondo che nel 2016 ha battuto, come rendimento, tutti gli altri al mondo, ha appena investito in Cann Group, coltivatore australiano di marijuana. E, se volete le notizie sul web il Marijuana Business Daily segue il settore a ciclo continuo. Naturalmente, bisogna fare distinzioni: se uno dicesse a Geoffrey Guy che tratta “erba” storcerebbe il naso e forse firmerebbe una querela. Perché queste società esistono, sono legali, stanno sul mercato in quanto i loro prodotti hanno un uso medico, fino ad un attimo fa l’unico consentito. Sia le medicine antiepilessia di Guy, che quelle per i malati di tumore e di Aids di Kapoor si basano su marijuana priva di componenti psicoattivi: è inutile provare a fumare l’Epidiolex o il Syndros. Ed è possibile che Gw o Insys restino nel mercato medico. Ma gli altri si stanno preparando a cavalcare un’onda di consumi. Siamo all’anno zero.
Fra il 2017 e il 2018, fumare marijuana per lo sfizio di fumare marijuana diventerà legale, sia pure con norme assai diverse, per centinaia di milioni di persone: dall’Uruguay, al Canada, a metà Stati Uniti. L’Uruguay l’ha legalizzata da anni, ma solo da luglio la si potrà comprare in farmacia. Sarà un mercato regolato in modo assai stretto, almeno nelle intenzioni. Prezzo fisso (1,30 dollari a grammo), quantità razionata (10 grammi a settimana), qualità garantita (componente psicoattiva fra il 3,3 e l’11%). In Canada, la legalizzazione partirà un anno dopo: chiunque sia maggiorenne potrà comprare marijuana a uso ricreativo nei negozi di liquori o altri negozi specializzati, secondo regole dettate a livello statale. Negli Usa, i referendum che hanno accompagnato l’elezione di Trump hanno fatto scattare una legalizzazione a largo raggio, scadenzata secondo i diversi Stati. Il più grosso, la California, aprirà la vendita nell’estate 2018. Il paradosso è che la marijuana resta proibita a livello federale, ma metà degli Stati ha deciso di autorizzarne la vendita e l’uso.
Non si parla di Big Maria per caso. In Canada, gli esperti calcolano che il mercato legale farà sparire 7,5 miliardi di dollari dalle tasche del crimine organizzato. Nel 2015, il giro d’affari della marijuana medica in California è stato appena inferiore ai 3 miliardi di dollari. Secondo la società di ricerche Arcview, il fatturato dell’erba legale in tutti gli Usa è stato di 7 miliardi. Con la legalizzazione a tappeto, ci si aspetta una impennata: 22 miliardi di dollari nel 2020, 50 miliardi nel 2026. Metà del giro d’affari americano delle sigarette di Big Tobacco. E i protagonisti si attrezzano. Canopy Growth, la società di Bruce Linton, produce nella sua serra grande quanto otto campi da calcio, vicino alle cascate del Niagara, più marijuana di chiunque altro. I concorrenti di Aurora Cannabis, l’azienda di Terry Booth, stanno costruendo, però, una serra grande il doppio, 16 campi da football, dentro l’aeroporto di Edmonton, nell’Alberta. Produrrà 100 tonnellate di erba l’anno. Ma è qui che entrano in gioco Tim Keogh e AmeriCann. Sempre di serre, data la latitudine, si parla, ma la megaserra in costruzione nel Massachussetts è un quarto più di Edmonton, 20 campi da football. Quella annunciata da GFarms in California, dieci volte più piccola, è quasi una minimpianto. Questo gigantismo è il prologo della nascita di un oligopolio della marijuana, poche grandi aziende unite in un patto di ferro, come Big Pharma o Big Tobacco, Big Maria, appunto? Secondo John Hudak e Jonathan Rauch che, al tema, hanno dedicato un apposito studio per l’autorevole Brookings Institution (“Worry about bad marijuana – not dollari. Applicando lo stesso parametro all’Italia, dove, dallo scorso luglio, il progetto di legalizzazione della marijuana è in Parlamento, si arriva a circa 7 milioni di potenziali fumatori. In buona misura, adolescenti. Per scoraggiare i più giovani, dicono Jacobi e Sovinsky, bisognerebbe quadruplicare il prezzo con le tasse. Ma in Italia, la marijuana legale a 40 euro al grammo significherebbe ridare spazio al mercato nero. Da questo punto di vista, il parametro più difficile da individuare, nel dossier della marijuana legale, è proprio il prezzo: troppo alto riapre il mercato ai criminali, troppo basso rischia di favorire l’uso da parte dei consumatori più deboli. Ma il prezzo è l’elemento chiave del dossier anche perché dipende dalle tasse: la legalizzazione, per il fisco, è un affare non da poco. Negli Usa come in Italia. Ipotizzando una tassa del 25 per cento (quella americana, non il 75 per cento che in Italia si applica ad alcool e tabacco) il fisco italiano incasserebbe fra mezzo miliardo di euro e un miliardo e mezzo. A cui, però, bisogna aggiungere, sottolineano gli economisti favorevoli alla liberalizzazione, i risparmi nelle operazioni di polizia contro la criminalità e, soprattutto, lo svuotamento delle carceri, dove oggi, un terzo dei detenuti è costituito da spacciatori. Il risparmio, per l’Italia, secondo gli studiosi, sarebbe fra 1,5 e 2 miliardi di euro l’anno. Big Marijuana”) non è una ipotesi credibile. Il mercato farmaceutico è regolato in modo rigido dalle agenzie governative con cicli di investimento fra ricerca, brevetto, esaurimento del brevetto, finanziariamente assai costosi. Un’occhiuta vigilanza pubblica sui prodotti è improponibile per la marijuana a uso ricreativo. Ma Hudak e Rauch non credono neanche che possa affermarsi il modello di business di Big Tobacco: troppo diversificata l’offerta (dalla serra a chilometri zero alla farmacia all’azienda media a quella grandissima) per consentire il consolidamento in due-tre giganti come per le sigarette. A meno che non si vada verso regolamentazioni e controlli troppo stretti – che, aumentando le barriere all’entrata favoriscono le concentrazioni – il panorama della marijuana, dicono con qualche ottimismo i due studiosi, sarà largamente decentrato, come decentrata Stato per Stato è la normativa che sta entrando in vigore.
Per la marijuana, il futuro secondo Brookings, è più simile a quello dell’alcol: il vino con le sue mille fattorie, ma anche la birra, con la competizione fra le grandi aziende e la miriade di birre artigianali. Ma quello che nessuno è in grado di dire oggi è cosa accadrà fra i consumatori, nel momento in cui la marijuana legale sarà arrivata al negozio all’angolo. Due ricercatrici, Liana Jacobi e Michelle Sovinsky, hanno provato ad applicare un modello econometrico alla legalizzazione degli spinelli. Se pensate che la marijuana sia pericolosa quanto l’alcool, i risultati non sono rassicuranti. Lo studio (“Marijuana on Main Street”) calcola che la marijuana legale farebbe aumentare i consumatori di spinelli del 50 per cento. Per gli Usa significano circa 50 milioni di consumatori. Da qui l’idea di un giro d’affari legale da decine di miliardi di dollari. Applicando lo stesso parametro all’Italia, dove, dallo scorso luglio, il progetto di legalizzazione della marijuana è in Parlamento, si arriva a circa 7 milioni di potenziali fumatori. In buona misura, adolescenti. Per scoraggiare i più giovani, dicono Jacobi e Sovinsky, bisognerebbe quadruplicare il prezzo con le tasse. Ma in Italia, la marijuana legale a 40 euro al grammo significherebbe ridare spazio al mercato nero. Da questo punto di vista, il parametro più difficile da individuare, nel dossier della marijuana legale, è proprio il prezzo: troppo alto riapre il mercato ai criminali, troppo basso rischia di favorire l’uso da parte dei consumatori più deboli.
Ma il prezzo è l’elemento chiave del dossier anche perché dipende dalle tasse: la legalizzazione, per il fisco, è un affare non da poco. Negli Usa come in Italia. Ipotizzando una tassa del 25 per cento (quella americana, non il 75 per cento che in Italia si applica ad alcool e tabacco) il fisco italiano incasserebbe fra mezzo miliardo di euro e un miliardo e mezzo. A cui, però, bisogna aggiungere, sottolineano gli economisti favorevoli alla liberalizzazione, i risparmi nelle operazioni di polizia contro la criminalità e, soprattutto, lo svuotamento delle carceri, dove oggi, un terzo dei detenuti è costituito da spacciatori. Il risparmio, per l’Italia, secondo gli studiosi, sarebbe fra 1,5 e 2 miliardi di euro l’anno.
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