Crack finanziari e bancarotte storiche in Italia

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Quale fu il primo crack finanziario della Storia? Nel Medioevo le grandi famiglie fiorentine prestavano soldi ai più potenti sovrani d’Europa. Ma nella prima metà del XIV secolo ci fu un grosso tracollo: fu il primo crack finanziario.

La crisi delle Borse europee (e il conseguente “effetto domino”) generati dalla chiusura della Silicon Valley Bank sono una vecchia storia per i risparmiatori. Il fallimento di banche, i bond fantasma e le bolle speculative nascono già nel Medioevo.

Ieri come oggi

Governi insolventi, crack bancari, crisi di liquidità e corse agli sportelli. Non siamo nella Silicon Valley dopo la chiusura di due banche (Silicon Valley Bank e Signature Bank) da parte del governo americano nel 2023, né nella New York del 2008 (anno del fallimento della banca d’affari Lehman Brothers e dell’esplosione della crisi economica del terzo millennio). E neanche in quella del 1929 (crollo di Wall Street e inizio della Grande depressione). Siamo nella Firenze del XIV secolo, cuore dell’economia del tempo. Qui, in pieno Medioevo, deflagrò una grossa crisi finanziaria legata al crollo delle banche delle famiglie dei Peruzzi e dei Bardi, fino a quel momento fiore all’occhiello della finanza europea.

Insolvente

Tutto iniziò a causa di un sovrano con le tasche bucate: Edoardo III Plantageneto, re d’Inghilterra. Sul trono dal 1327, dopo essersi impegnato contro gli scozzesi, lanciò nel 1337 una campagna militare contro la Francia, dando avvio alla Guerra dei Cent’anni. La nuova bellicosa iniziativa però prosciugò le casse statali e il re si trovò costretto a chiedere denaro in prestito alle compagnie commerciali fiorentine, già attive in Gran Bretagna (da dove proveniva tra l’altro la lana per le manifatture toscane). Queste compagnie erano sorte in varie città italiane con fini mercantili, ma dalla metà del XIII secolo avevano iniziato a specializzarsi in crediti, depositi e finanziamenti. Alcune, organizzate attorno ai capitali di potenti famiglie, divennero simili a moderne banche, offrendo vantaggiosi interessi a chi vi depositava i propri capitali.

Terra ricca

L’italiano s’impose così come la lingua della finanza, e nel settore spiccarono le compagnie toscane e in particolare quelle dei Bardi e dei Peruzzi, “multinazionali” con filiali in tutta Europa e nel Vicino Oriente. Tra i beneficiari dei loro prestiti c’erano principi e sovrani, che ne abusavano per coprire le incessanti spese militari. In cambio, gli istituti bancari ricevevano altissimi interessi o, in alternativa, esenzioni e privilegi di vario genere (titoli nobiliari, sfruttamento di dogane e terreni), allargando così il proprio potere anche in ambito politico.

Effetto contagio sulle Borse per il fallimento della Silicon Valley Bank negli Usa. Morrowind / Shutterstock
Effetto contagio sulle Borse per il fallimento della Silicon Valley Bank negli Usa. Morrowind / Shutterstock

Una somma esorbitante anche per un re, tanto più che la guerra in cui si era impantanato non stava dando i risultati sperati. «Il prestigio del sovrano entrò in crisi, e in molti percepirono come imminente anche il dissesto dei due colossi della finanza fiorentina, tanto che nel 1339 papa Benedetto XII decise di rinunciare ai servigi dei Bardi e dei Peruzzi per la gestione delle finanze pontificie», racconta lo storico Lorenzo Tanzini, autore del saggio 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza (Salerno). Come temuto, Edoardo si rifiutò di saldare i suoi debiti, formalizzando la propria condizione d’insolvenza. Oggi si direbbe che il sovrano dichiarò il “default”.

Bank run

La bancarotta di Edoardo III rafforzò la paura di un’imminente crisi di liquidità dei Bardi e dei Peruzzi, e a spaventarsi furono tra gli altri il re di Napoli Carlo D’Angiò e tutta la nobiltà napoletana, che aveva importanti depositi presso i banchieri fiorentini. «In precedenza, i mercanti della città del giglio avevano alimentato la conquista del Regno di Napoli da parte dello stesso Carlo d’Angiò, ricevendo in cambio rendite fiscali e privilegi commerciali», afferma lo storico.

Panico

Le compagnie fiorentine, però, erano ormai percepite come agonizzanti, e per molti il timore di non rivedere più il denaro depositato si trasformò in panico. Stuoli d’investitori grandi e piccoli si affrettarono a ritirare la propria liquidità dalle banche, dando il via a uno dei primi casi di bank run (“corsa agli sportelli”) di tutti i tempi. In pochi mesi, i banchieri fiorentini si ritrovarono senza fondi, anche perché i loro prestiti erano spesso azzardati e non supportati da solidi capitali. Dopo alcuni istituti minori, crollarono anche i più potenti: tra il 1343 e il 1346 l’insolvenza di Edoardo III e la corsa al prelievo costrinsero infatti i Bardi e i Peruzzi a ufficializzare il proprio fallimento.

Effetto contagio

E dal 1345 il contagio della bancarotta colpì un’altra lunga serie di soggetti: insieme ad altri istituti bancari (tra cui quello degli Acciaiuoli, illustre al pari degli altri due), fallirono artigiani, commercianti e imprenditori che avevano investito i propri guadagni, crollò il mercato immobiliare e molti piccoli risparmiatori dovettero dire addio ai gruzzoli depositati. «Oltre alla perdita di denaro, si registrò il crollo della fiducia nei confronti di ogni mercante e banchiere, anche se non direttamente coinvolto nel disastro», rimarca l’esperto.

«E, come si sa, il mercato si basa essenzialmente sulla fiducia degli investitori».

Eventi collaterali

All’iniziale ottimismo per la finanza, subentrò quindi una generale depressione, ancor più dopo che lo stesso Comune si dichiarò impossibilitato a pagare i titoli pubblici (i prestiti fattigli dai cittadini). Insomma, dopo il rovescio dei Bardi e dei Peruzzi, “che condivano colli loro traffichi gran parte del traffico della mercatantia”, non restava ormai “quasi sostanza di pecunia ne’ nostri cittadini“, come annotò il mercante Giovanni Villani, cronista dell’epoca. A suo dire, mai a Firenze, neppure in guerra, c’erano state “maggiore ruinae sconfitta“. A peggiorare la situazione contribuì una serie di inondazioni che compromise i raccolti del 1346, e l’anno seguente, la “peste nera“, che nel 1348 dimezzò la popolazione di Firenze (da 90mila a 45mila abitanti).

La ripresa

Dopo il tracollo la situazione iniziò pian piano a migliorare. «Le autorità cittadine decretarono per esempio che tutte le voci di debito accese dal Comune nel corso degli anni venissero accorpate in un’unica gestione chiamata “monte”; nome che ben esprimeva l’ingente quantità di debiti da gestire», spiega Tanzini. La nuova gestione si basava su un enorme registro (redatto dal 1347) con i nomi di tutti i creditori del Comune, a cui furono offerti nuovi interessi sui vecchi depositi e la possibilità di riscattare l’intero credito se avessero investito ulteriore denaro.

Il “mercato” dei titoli pubblici così rifinanziò la Repubblica fiorentina, e in pochi anni la crisi rientrò. Mercanti, banchieri e imprenditori ripresero i loro affari. Paradossalmente anche la peste ebbe effetti positivi: la diminuzione di manodopera fece lievitare i salari aumentando i consumi.

Memoria corta

Stava ripartendo un ciclo economico positivo. In molti iniziarono a riflettere sul tracollo, causato da un’incontrollata euforia degli investitori e degli operatori finanziari. “Non si deve tacere il vero per […] fare memoria di queste cose, per dare ad esempio a quelli che sono a venire di usare migliore guardia“, ammoniva Villani. In economia, però, la memoria è spesso breve, e nel continente non tardarono a profilarsi all’orizzonte nuove speculazioni e crisi anche di ampia portata. A Firenze, sarebbero di lì a poco salite alla ribalta nuove potenti famiglie pronte a influire a livello politico e finanziario. Tra queste spiccherà quella dei Medici.

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