La Cina in trade war alla conquista dell’Occidente

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Hong Kong (Cina) vuole Londra e Milano, ecco perché. Pronto il golden power? La mossa della borsa di Hong Kong, eterodiretta da Pechino, non ha solo motivi economici ma anche interni e geopolitici. Verso una guerra dei listini?

Trade war, guerra tecnologica, nuova guerra fredda. Nel già ampio spettro della sfida a tutto campo tra Stati Uniti e Cina c’è spazio per una nuova, per certi versi sorprendente capitolo: la battaglia sui listini. La Borsa di Hong Kong ha infatti lanciato un’offerta d’acquisto per il London Stock Exchange Group (Lse Group), gestore non solo della borsa di Londra ma anche di quella italiana. L’operazione è di difficile (se non difficilissima) realizzazione. Ma la mossa, studiata direttamente da Pechino, è significativa e risponde non solo a motivi economici e commerciali (di cui Affaritaliani.it parla qui) ma anche politici, interni ed esterni.

L’offerta arriva infatti in un momento delicato per diverse dinamiche dentro e fuori la Cina. Sul fronte interno, Pechino si trova alle prese con la complicata gestione delle proteste a Hong Kong, che stanno paralizzando l’ex colonia britannica ormai da alcuni mesi. La morte della extradition law annunciata dalla governatrice Carrie Lam non ha placato la rabbia dei manifestanti che chiedono tra le altre cose il suffragio universale e un’inchiesta indipendente sulle presunte violenze della polizia nei loro confronti.

La Cina, che nel frattempo ha concentrato forze militari e di polizia nella vicina Shenzhen, non è ancora intervenuta in prima persona a Hong Kong ma l’attendismo al momento non ha portato frutti rilevanti. Allo stesso tempo negli ambienti commerciali e finanziari si inizia a respirare qualche malumore, con le proteste che stanno avendo per forza di cose un contraccolpo anche economico. Basti pensare alla mancata quotazione, nonostante gli annunci, da parte di Alibaba.

Le rimostranze dei giovani di Hong Kong non ha solo motivi politici ma anche sociali ed economici. Basti pensare alle difficili e diffuse complesse condizioni abitative, nonché alle crescenti disparità. Ecco che allora l’espansione internazionale della borsa di Hong Kong potrebbe essere il segnale di un rilancio in piena regola per l’ex colonia britannica, orchestrata dal governo centrale di Pechino per mettere dalla propria parte ambienti finanziari e industriali.

Non solo. La Cina potrebbe continuare a utilizzare Hong Kong come veicolo di intermediazione nei rapporti finanziari con il mondo occidentale, portando anzi la compenetrazione dei due sistemi su un nuovo e più profondo livello, sterilizzando il possibile isolamento internazionale di uno dei suoi più importanti asset strategici.

C’è poi un importante risvolto geopolitico. Il Regno Unito è sempre stato la testa di ponte della presenza in Europa della Cina, quantomeno per ciò che riguarda l’aspetto finanziario. La Brexit e la contemporanea offerta degli Stati Uniti di Donald Trump di un accordo di libero scambio di vasta portata con Londra può creare non pochi problemi a Pechino, che a questo punto prova a sfidare direttamente Washington in un derby che vede in palio una Gran Bretagna de-europeizzata. Vero che Boris Johnson sembra vicinissimo a Trump, ma è altrettanto vero che il neo primo ministro britannico si è più volte espresso in maniera entusiastica su Pechino e sua figlia ha anche studiato mandarino in Cina.

Nel discorso rientrerebbe anche l’Italia, visto che il London Stoch Exchange, come detto, controlla Piazza Affari. Anche qui potrebbero esserci risvolti interessanti per Pechino, che potrebbe provare a modellare su sembianze più occidentalizzanti la sua Belt and Road Initiative. Una Via della Seta che potrebbe dispiegarsi in maniera ancora più sinuosa in Italia ed Europa utilizzando una presa finanziaria molto concreta.

In Italia la notizia ha subito creato la reazione dell’opposizione, in particolare della Lega che ha già chiesto chiarimenti al governo M5s-Pd. La sensazione, soprattutto dopo quanto già avvenuto nei giorni scorsi sulle telecomunicazioni nel primo consiglio dei ministri del Conte bis, è che l’esecutivo possa comunque far valere il golden power, che comprende anche le infrastrutture finanziarie. Intanto una nuova partita è cominciata.

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