In questo giorno nacque uno stato fantoccio nazista in Francia

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La pagina più buia della storia francese: lo Stato di Vichy. Lo Stato di Vichy era un governo “fantoccio”, nelle mani dei nazisti, guidato da Philippe Pétain, che pagò la collaborazione con Hitler con una condanna per alto tradimento.

Il 10 luglio 1940 nella Francia centro-meridionale nacque lo Stato di Vichy: un regime collaborazionista controllato dai nazisti.

Le ombre della Francia

Il 22 giugno 1940, a poco più di un mese dall’invasione tedesca, la Francia firmò un armistizio che prevedeva la divisione della nazione in due entità distinte. La prima, corrispondente alla zona centro-settentrionale del Paese, compresa Parigi, era sottoposta all’occupazione diretta dei tedeschi; l’altra invece, più a sud, fu definita “libera”. Fu proprio nel settore meridionale che prese vita, il 10 luglio 1940, lo Stato collaborazionista di Vichy, un’esperienza storica che divide ancora oggi i francesi perché rievoca, come un oscuro senso di colpa collettivo, la pagina grigia della coabitazione con i nazisti.

Dalle terme al ministero

Nel luglio del 1940 la Terza Repubblica francese si suicidò. Le istituzioni, tra cui il libero parlamento, si autoaffondarono sotto il peso della sconfitta, oltre che militare, morale. E da quella disfatta nacque lo Stato di Vichy, che non fu mai di forma repubblicana, perché, appunto, la vera repubblica era morta sotto i carri armati e le truppe di Hitler. Vichy era una rinomata cittadina termale nel cuore della Francia. Qui i ricchi andavano a curarsi il fegato. Fu scelta anche perché disponeva di una quantità di alberghi di lusso, i quali, una volta requisiti, ospitarono gli apparati dello Stato. Le anticamere, i corridoi e i sontuosi bagni terapeutici, frequentati fino ad allora da facoltosi clienti, vennero così invasi da armadi e schedari in grigio stile “ministeriale”.

La bandiera dello Stato di Vichy. © Shutterstock
La bandiera dello Stato di Vichy. © Shutterstock

Le massime autorità

All’Hotel du Parc venne fissata la sede di rappresentanza del capo del governo collaborazionista: il vecchio maresciallo Philippe Pétain, eroe della Prima guerra mondiale, una gloria militare che godeva di enorme prestigio nazionale. Questi diverrà poi capo dello Stato. Pétain divenne l’immagine vivente di Vichy, ma il “motore” del regime collaborazionista fu invece un navigato esponente della defunta classe politica francese: Pierre Laval, uomo allenato a tutti gli intrighi di palazzo. Sebbene Laval, per un certo periodo, fosse caduto in disgrazia, sia presso i tedeschi, sia presso Pétain (che lo rimosse per poi ripescarlo un anno e mezzo dopo), è fuori discussione che fu lui a rappresentare la continuità amministrativa dell’esperienza di Vichy: con le sue poche luci e le molte ombre.

Occupazione light

Il governo collaborazionista nacque sotto la spinta di una necessità: preservare uno scampolo di sovranità e di orgoglio patrio, in una nazione che era stata vinta sul campo e umiliata da Hitler. Laval, in questo senso, incarnò l’anima più duttile e politica del regime, quella disposta a scendere a compromessi con i tedeschi, pur di strappare loro qualche concessione, a vantaggio della popolazione.

Il maresciallo Philippe Pétain (in primo piano, con l’uniforme) alla fine della Prima guerra mondiale (1918). Everett Collection / Shutterstock
Il maresciallo Philippe Pétain (in primo piano, con l’uniforme) alla fine della Prima guerra mondiale (1918). Everett Collection / Shutterstock

Una giustificazione che il capo del governo di Vichy usò successivamente, durante il processo che lo vide alla sbarra, quando tentò di difendere il proprio operato, cercando di persuadere chi lo giudicava di aver fatto il possibile per adottare provvedimenti assai più blandi di quelli che avrebbero potuto imporre i tedeschi, qualora avessero comandato direttamente.

Deportazioni

Nonostante la buona volontà di Laval, non si evitarono certo le deportazioni in massa degli ebrei, anche nella zona “libera”, e l’invio di contingenti di lavoratori coatti in Germania, per sostenere l’economia del Reich. A Parigi, e nella zona sottoposta alla diretta occupazione nazista, le cose andarono ancora peggio, e resta tristemente noto il caso del concentramento di 13.152 ebrei attuato dalla polizia, il 16 luglio 1942, al Vélodrome d’Hiver della Capitale.

Alla fine, furono deportati dalla Francia almeno 75.721 ebrei, in gran parte cittadini stranieri che vi avevano cercato rifugio. Malgrado gli sforzi compiuti dallo Stato di Vichy per salvaguardare, almeno, i cittadini francesi di religione giudaica, 24mila di essi condivisero la sorte della deportazione. E di questi soltanto 2.564 riuscirono a tornare.

Collaborazionisti per interesse

Se si valutano i differenti gradi di responsabilità, all’interno della classe dirigente del regime di Pétain non vi furono soltanto i “collaborazionisti per necessità”. Ci furono anche quelli che, invece, spinsero l’acceleratore dell’allineamento ai nazisti fino al punto da sposarne in pieno l’ideologia. Era, questo, il caso di uomini politici come Marcel Déat, o Jacques Doriot, che auspicavano la trasformazione della Francia in un Paese satellite della Germania, alleato di ferro del Reich.

Autodistruzione

Ben presto tuttavia il regime di Vichy venne scosso dagli eventi che si verificarono nell’Africa del Nord, sintomi del capovolgimento delle sorti del secondo conflitto mondiale. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1942, gli Alleati sbarcarono in Marocco e in Algeria, due possedimenti francesi. Per reazione, i tedeschi occuparono anche la zona libera della Francia, sottoposta alla giurisdizione di Vichy. Il 17 novembre, l’ammiraglio François Darlan mise le risorse francesi in Nord Africa a disposizione degli angloamericani dopo che le forze pétainiste del generale Barré avevano combattuto contro i rinforzi germanici appena giunti in Tunisia.

Hitler ordinò di sciogliere l’esercito dell’armistizio. Tra Vichy e il Reich si giunse così a un passo dalla rottura. Il 27 novembre i tedeschi cercarono di impadronirsi di ciò che restava della flotta francese, ma la risposta fu l’autoaffondamento delle unità da guerra nel porto di Tolone. Fu, questo, l’atto più temerario con il quale il regime di Pétain tentò di preservare la propria autonomia politica.

Autoaffondamento della flotta francese nel porto di Tolone (27 novembre 1942). © Everett Collection / Shutterstock
Autoaffondamento della flotta francese nel porto di Tolone (27 novembre 1942). © Everett Collection / Shutterstock

Ritorno alla tradizione

Vichy costituì, per molti versi, anche il tentativo di introdurre in Francia stili di governo a imitazione del fascismo. In questo senso, la pur breve esperienza di Vichy lasciò tracce evidenti nel cosiddetto programma di “rivoluzione nazionale”, che prevedeva il ritorno alla tradizione e l’instaurazione di modelli corporativi. La Francia collaborazionista rappresentò dunque la rivincita delle tendenze più conservatrici della società francese, che vedevano nel calo demografico e nella rilassatezza dei costumi i sintomi di una crisi considerata come una malattia morale.

Questi ultraconservatori, che biasimavano i divertimenti e la vita notturna, il jazz, l’alcol e le gonne corte, ispirarono politiche di rilancio della vita rurale e una seria campagna per combattere la piaga dell’alcolismo. I privilegi e le esenzioni fiscali concessi ai distillatori vennero soppressi. Il 24 agosto 1940, gli aperitivi a base di superalcolici furono proibiti.

Dio-patria-famiglia

Il regime, inoltre, pur non rinunciando completamente alla laicità dello Stato, ripristinò l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Il potere sociale della Chiesa, in generale, aumentò, anche perché il governo faceva rientrare il cristianesimo nella lista dei valori tradizionali da restaurare, che si riassumevano nella triade Dio-Patria-Famiglia. Le gerarchie cattoliche furono in prima linea nel sostenere Pétain, e ciò, nel Dopoguerra, fu all’origine del braccio di ferro che oppose il pur devoto generale De Gaulle al Vaticano, per via della richiesta del governo francese di rimuovere dal loro incarico i vescovi filo-collaborazionisti.

Sensi di colpa

È difficile esprimere un giudizio storico netto su Vichy. All’interno di quell’esperienza vi furono uomini, come Laval, che in buona fede intesero la collaborazione come il male minore; ma ve ne furono invece altri che diedero libero sfogo alle pulsioni più aberranti del potere. Il settimanale antisemita Je suis partout, per esempio, pubblicava in ogni numero una rubrica nella quale si indicavano l’identità e i nascondigli di coloro che cercavano di mettersi in salvo. Vi si denunciavano medici ebrei che osavano ancora esercitare, giornalisti che scrivevano sotto falso nome, famiglie che si erano trasferite in piccoli centri nella speranza di passare inosservate, evitando l’arresto.

È in quella Francia oscura – per quattro anni diventata la culla della delazione – che ancora oggi si agita il senso di colpa per i crimini commessi sotto il regime di Vichy.

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