Nel 1839 il naturalista Manuel Ferreira Lagos scoprì negli archivi della Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro un vecchio manoscritto, già piuttosto deteriorato dal tempo, che recava la datazione del 1753 e che narrava di una singolare scoperta compiuta da un gruppo di bandeirantes (contrabbandieri e cacciatori di schiavi portoghesi che imperversavano nell’entroterra del Brasile).
Secondo tale documento, la banda, mentre vagava all’interno della regione del Mato Grosso alla ricerca delle leggendarie miniere d’argento del Grande Muribeca, giunse ai piedi di una catena montuosa dall’aspetto luccicante a causa della presenza di cristalli; in un primo tempo gli avventurieri non riuscirono a trovare un passo che permettesse loro di superarla e stavano per tornare indietro, quando uno di loro scoprì casualmente quella che appariva una strada costruita dall’uomo e che si addentrava all’interno della montagna. L’intero gruppo seguì questo passaggio sino a che non giunse in vista di una grande città, davanti alla quale si arrestò per due giorni, incerto sul da farsi. Poi un indiano appartenente alla compagnia decise di addentrarsi all’interno di essa e tornò affermando che appariva del tutto disabitata. Tutti i bandeirantes percorsero allora la strada che portava alla misteriosa città e vi entrarono attraverso tre archi, dei quali quello interno, il più alto, appariva coperto da strane lettere che non poterono essere identificate a causa della notevole distanza dal terreno. Nella città propriamente detta c’erano case di grande ampiezza, con sculture in pietra sulla facciata ed iscrizioni indecifrabili; all’interno apparivano scure e del tutto prive di suppellettili che potessero fornire indizi sull’identità degli antichi abitanti. Proseguendo nella loro perlustrazione, i bandeirantes arrivarono ad una piazza, al centro della quale si ergeva un’enorme colonna di pietra nera, sulla cui sommità era visibile la statua di un uomo con la mano sinistra sollevata e la destra tesa, con l’indice che puntava verso il Polo Nord. Ad ogni angolo della piazza c’era un obelisco, mentre sulla sua destra si elevava un‘imponente costruzione con una vasta sala; sul portico principale c’era un bassorilievo che ritraeva un giovane imberbe, privo di indumenti sino alla cintola e con la testa cinta da una corona d’alloro. Sul lato sinistro della piazza erano presenti le rovine di quello che sembrava un tempio, con altri bassorilievi e figure artistiche; più in avanti si vedevano solo case completamente in rovina, come se la città fosse stata colpita da un terremoto. Oltre di essa scorreva un grande fiume, il cui percorso gli avventurieri seguirono per tre giorni, finché non si trovarono davanti ad una grande cascata, sul cui lato orientale si aprivano diverse caverne sotterranee, alcune delle quali erano sovrastate da grandi lastre di pietra su cui erano intagliati altri caratteri indecifrabili; si trattava forse di una sorta di cimitero. Ancora più avanti c’era quella che sembrava un’enorme casa di campagna, con una facciata di 250 piedi, tante fontane e le solite iscrizioni misteriose. Alcuni componenti della banda decisero di spingersi più avanti, e dopo nove giorni di viaggio giunsero ad una grande baia, nella quale sfociava il fiume, sulla quale osservarono una canoa con a bordo alcuni individui dall’aspetto europeo, ma con lunghi capelli neri, che fuggirono non appena si avvidero della loro presenza.
L’unico artefatto ritrovato dai bandeirantes in mezzo a queste misteriose rovine fu una moneta d’oro, su un lato della quale c’era l’immagine di un ragazzo inginocchiato, mentre sul rovescio erano incisi un arco, una corona ed una freccia.
Questo documento era indirizzato alle autorità portoghesi di Rio de Janeiro, ma evidentemente non fu tenuto in gran conto, ed anche Ferreira Lagos non gli diede troppa importanza, limitandosi a consegnarlo all’Istituto Geografico e Storico Brasiliano; fu uno dei fondatori di quest’ultimo, Januario de Cunha Barbosa, a comprenderne l’intrinseco valore e ad iniziare a dargli una certa rilevanza, aprendo così un dibattito tra chi lo riteneva il resoconto di una scoperta realmente accaduta e chi invece lo reputava un falso.
Il manoscritto 512, come venne denominato comunemente, attirò ben presto l’attenzione anche al di fuori del Brasile, soprattutto da parte di archeologi ed esploratori britannici.
Uno dei più noti tra essi fu Richard Burton, che si avventurò all’interno della giungla amazzonica nel periodo in cui fu console a Santos (dal 1865 al 1868) e scrisse anche un libro su questa sua esperienza, “Explorations of the Highlands of Brazil: With a Full Account of the Gold and Diamond Mines”.
Tuttavia colui che legò indissolubilmente il proprio nome a questa misteriosa città perduta fu il colonnello Percy Harrison Fawcett. Notissimo e controverso esploratore dell’inizio del Novecento, Fawcett compì diverse spedizioni per tutto il Sudamerica tra il 1906 ed il 1914, riportando anche l’avvistamento di diversi animali sconosciuti alla scienza, come una anaconda gigante ed un cane simile ad un gatto, il che gli valse lo scherno da parte della comunità scientifica dell’epoca. Tuttavia, almeno nel caso del cane andino a due nasi, anch’esso da lui descritto, in seguito fu possibile appurare la veridicità delle sue asserzioni.
Nel corso di questi avventurosi viaggi il colonnello inglese ebbe modo di ascoltare da alcuni indios della foresta amazzonica le storie su una misteriosa città abbandonata nel cuore della giungla, ed iniziò ad interessarsi alla sua scoperta. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale si arruolò volontario come ufficiale di artiglieria, lo costrinse ad interrompere le sue esplorazioni, ma al termine del conflitto Fawcett ritornò in Brasile, ancora intenzionato a ritrovare quelle che credeva essere le ultime vestigia del mitico El Dorado. Proprio in questi frangenti, nel 1920, ebbe modo di leggere il manoscritto 512, e questo non fece altro che consolidare le sue convinzioni. Ossessionato dal timore che qualcun altro potesse rubargli i risultati delle proprie ricerche, mantenne la massima segretezza su di esse, e probabilmente fu per questo che denominò la città con la sola lettera Z. Nel 1925, ottenuti finanziamenti, decise di intraprendere la spedizione finale per raggiungerla, e si addentrò nel Mato Grosso con la sola compagnia del figlio Jack e dell’amico Raleigh Rimmel, partendo da Cuiabà il 20 aprile. Il 29 maggio scrisse una lettera alla moglie, nella quale affermava di stare per entrare in un territorio inesplorato, ma dopo di allora di lui e dei suoi due compagni di viaggio non si seppe più nulla, e negli anni successivi circolarono varie voci incontrollabili sul destino dei tre avventurieri.
Al momento, non è possibile stabilire alcunché di certo su questo singolare documento, ad iniziare dal suo stesso autore: per alcuni si sarebbe trattato di João da Silva Guimaraes, per altri di Antonio Lourenço da Costa.
Anche le poche iscrizioni scoperte nella città e trascritte sul manoscritto sono state fonti di lunghe dissertazioni e contese: lo stesso Fawcett le riconduceva ad altre misteriose scritte da lui scoperte nel cuore dello Sri Lanka, mentre più recentemente lo scrittore Barry Fell le ha associate al greco tolemaico, parlato nell’Egitto ellenistico, con tracce di alfabeto dello scorpione, un linguaggio criptico usato dai sacerdoti caldei.
C’è chi ha voluto associare la misteriosa città Z con l’altrettanto leggendaria Paititi, ultimo rifugio degli Inca dopo l’invasione spagnola del 1532. Paititi, già nota attraverso le relazioni di conquistadores spagnoli del Cinquecento e del Seicento, è balzata agli onori della cronaca nel 2001, quando l’archeologo italiano Mario Polia ha scoperto negli archivi dei Gesuiti a Roma una relazione scritta dal missionario Andrea Lopez, risalente all’inizio del XVII secolo e che trattava diffusamente di questa città, che diceva ricca di oro di argento e di gioielli, per quanto riportasse solo racconti forniti da indigeni e non l’avesse mai vista in prima persona.
Prima e dopo tale scoperta si svolsero varie spedizioni archeologiche alla ricerca dei resti di questo luogo leggendario, ed in effetti ai confini tra Bolivia, Perù e Brasile sono stati ritrovati in varie occasioni diversi manufatti ed alcune rovine di origine inca.
E’ difficile stabilire se Paititi possa essere identificata con la città Z: la collocazione geografica delle due località è relativamente vicina, ma non proprio identica. Inoltre, dalla descrizione del manoscritto 512 si ricava l’idea di una città appartenente ad una civiltà mediterranea classica, piuttosto che alla cultura inca o a qualche altra ad essa precedente e dalla quale avrebbe tratto origine. Come al solito, in mancanza di solidi elementi di prova, ci si deve limitare a formulare ipotesi, scevre da eccessivo entusiasmo o da totale scetticismo, nella speranza che un giorno qualche importante scoperta getti piena luce su questa affascinante leggenda.
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