L’identikit perfetto per un personaggio da fumetti. Ma Brian Hanley, 60 anni, fa sul serio: è il primo uomo transgenico. E due sono i suoi nemici: l’invecchiamento e la prudenza. Perché Brian Hanley ha fatto una cosa pericolosa, da bio-hacker. Mentre ci parla, nelle cellule dei suoi muscoli è attivo un gene estraneo al suo corpo, che tiene alta la produzione di un ormone, quello della crescita, che ha il suo picco nei primi dieci anni di vita e poi cala bruscamente.
«Quando studiavo il virus dell’Hiv alla University of California, ho letto che un nostro ormone detto Ghrh, che come effetto più noto ha quello di stimolare la produzione di ormone della crescita (Gh), si attacca alle cellule usando gli stessi recettori che usa il virus dell’Hiv per danneggiarle. Così ho pensato che più ormone Ghrh abbiamo, più l’Hiv troverà quei recettori “occupati” e la malattia si fermerà. Anche perché l’ormone Ghrh potenzia il sistema immunitario»
Come è passato dal nobile tentativo di curare l’Aids a quello di ringiovanire l’organismo?
«Le case farmaceutiche non hanno voluto investire nel mio progetto anti-Hiv. Così ho voluto puntare sugli altri benefici che l’ormone della crescita può portare grazie al suo effetto di potenziamento generalizzato del sistema immunitario, come il contrasto degli effetti dell’invecchiamento ».
Giocare con l’ormone della crescita, però, è rischioso.
«Ho scelto l’ormone Ghrh perché è uno di quelli che sono stati più sperimentati sugli animali, con rischi piuttosto bassi. Però sull’uomo non si sa: c’è un rischio di gigantismo, di acromegalia, di stress degli organi. E non si possono escludere tumori cerebrali. Ad oggi, però, sono sano. Bisogna anche dire che l’organismo ha un sistema di autoregolazione che impedisce che il livello di ormone della crescita sia troppo alto. Con la mia tecnica io aspiro soltanto a riportarne la produzione ai livelli dei nostri trent’anni. Comunque, proprio perché ci sono dei rischi, mi sono rivolto a un comitato bioetico indipendente che mi ha dato l’approvazione per l’esperimento, ma su un solo soggetto. Per fare prima, ho scelto di essere la mia cavia».
Questo però la mette in un conflitto di interessi…
«Inevitabile. Però sono stato seguito e studiato anche dal laboratorio di George Church dell’Harvard Medical School. In ogni caso la storia di scienziati che fanno esperimenti su se stessi è lunga. Ci sono 15 premi Nobel che lo hanno fatto. E 10 di costoro hanno vinto il Nobel proprio per gli studi su quegli esperimenti. Il più recente è stato Barry Marshall (Nobel 2005 per la medicina), che bevve una coltura di batteri per scoprirne gli effetti nelle gastriti e nelle ulcere».
Ci racconta l’esperimento?
«Il modo più facile per inserire Dna nelle cellule è usare dei geni che i batteri possono scambiarsi tra di loro e con batteri di altre specie: si chiamano “plasmidi”. Sono, in sostanza dei circoletti di Dna. Ne ho progettato uno contenente il gene Ghrh e l’ho fatto produrre da un laboratorio. Poi me lo sono fatto iniettare nei muscoli della coscia da un medico e, grazie a una corrente elettrica – dolorosissima, a dire la verità: mi dà ancora gli incubi – l’ho fatto penetrare nelle cellule. La prima volta nel luglio 2015. La seconda volta (con anestesia) nel giugno 2016. Ho fatto due iniezioni perché gli effetti durano qualche mese: non ho modificato il mio Dna, ma solo le mie cellule».
E come si sente?
«Il primo mese euforico, ma potrebbe essere un effetto placebo. Però sono cambiati valori che l’effetto placebo non può influenzare: ho più globuli bianchi, 20% in meno di colesterolo cattivo e 20% in più di quello buono, e ho 10 battiti in meno al minuto. Mi sembra di guarire prima dalle ferite. Ma comunque – so che se lo sta chiedendo – no, non mi è ancora venuta voglia di mettermi una calzamaglia e andare a combattere il crimine».
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