Fusione nucleare: progressi a piccoli passi di Lockheed Martin, il programma di fusione nucleare di Lockheed Martin. L’avvio della costruzione di un nuovo prototipo di reattore a fusione nucleare dimostra che la ricerca di Lockheed Martin in questa direzione procede bene, seppure molto lentamente.
L’ambizioso progetto di Lockheed Martin di sviluppare un reattore a fusione nucleare compatto (CFR, Compact Fusion Reactor) per produrre energia pulita e virtualmente illimitata sta per arrivare a una seconda, decisiva fase: la costruzione, avviata dal Skunk Works Team a Palmdale (California), di un reattore di prova più potente dell’attuale prototipo. Lo ha dichiarato il direttore del team, Jeff Babione, che per l’avvio del nuovo progetto ha sottolineato che «la strada finora seguita è quella giusta».
A differenza di ciò che avviene nelle centrali nucleari in funzione nel mondo, che per produrre energia sfruttano la fissione (il processo fisico-nucleare per il quale il nucleo atomico di un elemento chimico pesante viene spezzato in nuclei più leggeri), la fusione nucleare mira a produrre energia dalla fusione (appunto) di elementi leggeri (idrogeno, deuterio, trizio), in un processo che, a regime, ha un basso impatto ambientale rispetto al nucleare tradizione – perché non ha scorie radioattive a lunga vita (come invece ha la fissione).
Alla fusione stanno lavorando numerose nazioni del pianeta, anche con progetti faraonici come ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor, in Francia) e NIF (National Ignition Facility, Usa): entrambi progetti che sono in realtà “consorzi internazionali” di scienziati, tecnologie e investitori, ai quali spesso i vari Paesi partecipano con ricerche e sperimentazioni di parti del progetto complessivo, come nel caso dell’Italia e del Giappone con il reattore sperimentale JT-60SA (Japan Torus-60), nell’ambito dello sviluppo di ITER.
Le difficoltà da superare per arrivare a una fusione che si autosostenga (cioè che si mantiene nel tempo senza apporto di energia esterna) sono numerose, ma semplificando di molto possiamo riassumerle in due: le temperature necessarie ad arrivare allo stato di plasma (non potendo avere, sulla Terra, pressioni anche solo lontanamente comparabili a quelle di una stella, dobbiamo compensare elevando la temperatura fino a centinaia di milioni di gradi); il contenimento del plasma portato a quelle temperature, affinché non tocchi le pareti del reattore (che non reggerebbero), mediante tecnologie di confinamento magnetico (progetti di tipo ITER) oppure “a sospensione” mediante centinaia di laser che tengono il plasma a mezz’aria (progetti di tipo NIF).
La strada imboccata da Lockheed Martin è innanzi tutto quella del contenimento della dimensione del reattore: in questo caso “compatto” non è un modo di dire. Il prototipo finale di questa serie potrebbe avere una dimensione attorno ai 7 metri di diametro, contro le centinaia di metri di ITER. Dal punto di vista della tecnologia, Lockheed Martin adotta il confinamento magnetico: i ricercatori del team contano di costruire reattori via via sempre più grandi fino al “prototipo TX”, che, da progetto, dovrà essere in grado di produrre energia da fusione per almeno 10 secondi dopo lo spegnimento degli iniettori che producono il plasma, ossia senza alcun apporto esterno di energia. Se tutto andrà come da progetto si passerà, affermano con ottimismo forse eccessivo i ricercatori del Skunk Works, alla costruzione di un prototipo da 100 megawatt.
Lo sviluppo procede a piccoli passi: il team sta ancora lavorando sul T4, ma «stiamo costruendo il reattore T5, più grande del precedente», afferma Babione, «che dovrebbe essere pronto entro la fine di quest’anno». Il percorso pare però ancora lungo, per Lockheed Martin: prima di arrivare al modello TX bisognerà passare (e fare funzionare secondo le aspettative) il T6, il T7 e il T8. Se consideriamo che il T4 è del 2014-15… potrebbero volerci vent’anni ancora prima di arrivare al TX.
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