Scarso interesse e spesa pubblica per l’innovazione industriale

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Perché l’economia italiana non può vivere soltanto di turismo. A fronte di un contesto generale sorprendente per una economia che sta per esempio beneficiando del turismo, il governo deve misurarsi con i problemi dell’industria.

Il dato – non buono – sulla produzione industriale spiega due cose. La prima è che la manifattura italiana non sta bene. E se la manifattura italiana ha l’influenza, l’economia e la società italiane hanno più di un raffreddore.

L’indicatore della produzione industriale è affidabile per la sua estrema sensibilità: fra il 2001 e il 2005, quando l’industria italiana sperimentò una dolorosa ma vitale selezione post ingresso nell’euro, questo indicatore aveva una grande reattività positiva.

La seconda è che la politica, a fronte di questo specifico dato della manifattura, non può nascondersi dietro alle altre statistiche generali positive – italiane e internazionali – che mostrano come il Paese – rispetto al resto dell’Europa – abbia evitato la recessione.

A fronte di un contesto generale sorprendente per una economia che sta per esempio beneficiando del turismo, il governo deve misurarsi con i problemi dell’industria: dalle grandi crisi alle politiche industriali, necessarie per una manifattura che – con i suoi non pochi limiti, come capita anche di indicare a un giornale come il nostro – ha tenuto in piedi negli ultimi trent’anni un Paese che sarebbe sprofondato su se stesso senza le fabbriche e senza una radicale connessione ai mercati globali, sia nel periodo della pax americana degli anni Novanta sia – a partire dal 2001 – nel nuovo tempo segnato dalla crescita della Cina.

Il primo elemento – lo stato di salute – desta più di una preoccupazione. A ritroso – anno su anno, aprile 2023 su aprile 2022 – la fragilità è non da poco: -7,2% in generale e, in particolare, -11% sui beni intermedi e -8,3% sui beni durevoli. Anche la stasi dei beni strumentali (-0,2%) evidenzia la lontananza dell’Italia dai cicli di crescita internazionali che, a macchia di leopardo, si stanno ricomponendo sul tessuto segnato dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e dalla tensione fra Cina e Stati Uniti intorno a Taiwan.

Nella sua virtuosa medietà, l’Italia negli ultimi trent’anni ha fornito macchinari a chi da povero diventava meno povero e a chi da meno povero diventava ricco. Ora capita meno.

Il secondo elemento – la scarsa incisività delle politiche pubbliche – è altrettanto preoccupante.

Il governo non ha espresso alcuna soluzione sul drammatico caso dell’Ilva. Non ha espresso alcuna soluzione sul rapporto con Stellantis: non tanto nei termini di un ingresso nel capitale di Cdp, che sarebbe tutto da verificare nei suoi effetti di riequilibrio della governance oggi totalmente a favore degli azionisti francesi, quanto in una rappresentazione franca e diretta – al capoazienda Carlos Tavares e alla famiglia Peugeot – degli interessi italiani.

Non conta che anche il governo Draghi – come chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi, in una poco felice continuità politica italiana – sia stato inerte sul dossier della desertificazione automotive dell’Italia.

Anche su questo – come sulla siderurgia – il nostro Paese è fuorigioco. Un punto di raccordo fra il primo elemento – l’attuale difficoltà delle imprese a connettersi ai nuovi cicli di crescita internazionali – e il secondo elemento – l’inerzia del pubblico sui dossier industriali più critici – è costituito da ciò che, invece, si fa, da come lo si fa e con quale magnitudo.

Primo punto: quando si vuole fare qualcosa, non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare a Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e a Franco Reviglio.

Secondo punto: l’idea del fondo sovrano da un miliardo di euro va raffrontata alla realtà del miliardo di euro di investimenti promossi da una singola azienda, la Barilla.

Anche perché, poi, il vero problema è la visione. Il miliardo di euro – poco o tanto che sia – è un tassello di un mosaico che ha i suoi contorni nella destinazione delle risorse pubbliche non alle fabbriche ma ai micro-cantieri, non ai mercati internazionali ma alla piccola edilizia, non alla concentrazione delle risorse su nuovi settori ma alla ideologia del non chiudere mai niente.

Nella fusione della “cultura” del debito pubblico (anche a favore dei privati) e della prassi della afasia sui dossier più gravi.

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