In Italia, i rifiuti radioattivi, non trovano un posto

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Rifiuti radioattivi: il deposito nazionale che ancora non c’è. Il nuovo inventario dei rifiuti radioattivi rende evidente l’urgenza di un unico deposito nazionale definitivo per i rifiuti ad attività bassa e media e di uno temporaneo per quelli ad alta attività.

La prima cosa che salta all’occhio sfogliando il nuovo inventario nazionale dei rifiuti radioattivi, aggiornato al 31 dicembre 2017, è l’inedita paternità: con l’avvio nello scorso agosto dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin),  il Centro nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione – nato a sua volta dal soppresso Dipartimento nucleare di Ispra – ha cessato di esistere, cedendo funzioni, competenze e risorse umane al nuovo ente. Una discontinuità solo di facciata dunque, almeno per quanto riguarda l’aggiornamento annuale dell’inventario, condotto senza interruzioni dal 2000. Di anno in anno, l’inventario raccoglie e organizza i dati che i diversi gestori di rifiuti radioattivi (proprietari dei rifiuti e dunque responsabili della loro detenzione) trasmettono all’Ispettorato.

Oltre a costituire un supporto all’attività di vigilanza, l’inventario permette all’Ispettorato di proporre misure compensative per le comunità locali che ospitano i rifiuti radioattivi, valutandone la pericolosità. “Le variazioni rispetto al precedente inventario non riflettono solo i cambiamenti nelle strategie di gestione ma anche una migliore caratterizzazione dei rifiuti. Il continuo progresso tecnologico ci spinge infatti verso una maggiore accuratezza delle misure. Di conseguenza da un anno all’altro ci possono essere variazioni” premette Mario Dionisi, responsabile dell’Area tecnologie nucleari dell’Ispettorato.

Rispettando il decreto dei Ministeri dell’ambiente e dello sviluppo economico del 2015, l’inventario cataloga i rifiuti radioattivi in cinque categorie, a seconda della loro attività: vita media molto breve, attività molto bassa, bassa attività, media attività e alta attività.

I rifiuti sono situati in 22 siti, distribuiti in sette regioni. Su un totale di 30.497 metri cubi, il Lazio ospita la maggiore quantità di rifiuti: 9241 metri cubi, pari al 30,3 per cento del totale. La maggioranza è stoccata presso l’impianto romano di Casaccia, gestito da Nucleco, che da solo ospita quasi un quarto del totale nazionale. A seguire, Lombardia (19,3 per cento), Piemonte (16,7 per cento), Emilia-Romagna (10,5 per cento), Basilicata (10,3 per cento), Campania (9,6 per cento) e Puglia (3,3 per cento).

Fusti di materiale contaminato provenienti dallo smantellamento della centrale di Caorso (© Dino Fracchia/AGF)
Fusti di materiale contaminato provenienti dallo smantellamento della centrale di Caorso (© Dino Fracchia/AGF)

Se il volume è un parametro rilevante nella valutazione dei rifiuti, ancora più importante è però la loro attività, e da questo punto di vista la regione che ne ospita di più è il Piemonte. La maggioranza dei rifiuti radioattivi è ad attività bassa o molto bassa. “Eccetto il combustibile irraggiato e i materiali attivati, cioè esposti ai flussi di particelle, lo smantellamento delle centrali nucleari produce solo rifiuti a bassa attività.

Tuttavia, la maggioranza dei rifiuti radioattivi oggi generati in Italia proviene dal settore ospedaliero e, in parte, da quello industriale: circa 200 metri cubi all’anno”, continua Dionisi. Tra questi ci sono anche i materiali che possono essere venuti a contatto con sostanze radioattive, come i guanti in gomma del personale sanitario, cotone, siringhe e altro. La radiodiagnostica usa comunque isotopi a vita media molto breve: dopo qualche giorno, o al più tardi alcune settimane, sono considerati rifiuti pericolosi convenzionali e trattati come tali.

Un capitolo a parte riguarda i rifiuti radioattivi che derivano dalle attività di bonifica di siti industriali contaminati accidentalmente, a seguito per esempio di incidenti di fusione di sorgenti radioattive. Si tratta in generale di scorie di fusione, polveri, ceneri, prodotti finiti ma anche di materiali provenienti dalla bonifica di forni o camini contaminati. Ci sono casi in cui, non essendo stata rilevata con tempestività la presenza di radioattività, quei materiali sono stati smaltiti in discariche convenzionali, provocando una contaminazione radioattiva. “In passato, infatti, non ci si accorgeva per tempo di un eventuale incidente e il materiale contaminato lasciava la fonderia senza la consapevolezza della contaminazione. Oggi le industrie si sono dotate di portali che scansionano tutto ciò che entra ed esce, allo scopo di rilevare l’eventuale presenza di sorgenti radioattive”, prosegue Dionisi.

I rifiuti radioattivi in Italia
I rifiuti radioattivi in Italia

Per quanto riguarda il combustibile irraggiato, il materiale ad alta attività, ammonta a meno di 16 tonnellate, buona parte delle quali stoccate nel deposito “Avogadro” di Saluggia, in provincia di Vercelli. Infatti, più del 90 per cento del combustibile irraggiato, proveniente dalle quattro centrali nucleari nazionali dismesse, si trova nel Regno Unito e in Francia, dove in passato è stato inviato per essere riprocessato, cioè sottoposto a un particolare processo chimico che permette di recuperare l’uranio e il plutonio ancora utilizzabile. Residui e prodotti di fissione sono stati invece immobilizzati nel vetro, che resiste meglio del cemento alla radioattività, e quindi stoccati in fusti che dovranno tornare nel nostro paese.

“I rifiuti dovranno rientrare entro il 2025 ed è quindi necessario che l’Italia si doti della struttura di deposito idonea a ospitarli, nella prospettiva di smaltirli nel futuro in un deposito geologico multinazionale” spiega Lamberto Matteocci, direttore vicario dell’Ispettorato. Ciò che il paese necessita con urgenza non è un deposito geologico come quello finlandese di Onkalo, ormai prossimo al completamento, ma un deposito superficiale per smaltire in maniera definitiva i rifiuti a bassa e media attività e un deposito che immagazzini temporaneamente i rifiuti ad alta attività, come appunto quelli che dovranno rientrare dalla Francia e dal Regno Unito.

La tecnologia necessaria a realizzarlo è disponibile da decenni, e infatti altri paesi europei li hanno già realizzati. “Nel nostro paese è dagli anni ottanta che si parla di costruire un deposito centralizzato: è un processo lungo che però rappresenta una soluzione idonea allo smaltimento, migliore dell’attuale collocazione dei rifiuti in più siti, che a suo tempo non sono stati selezionati a questo scopo”, sottolinea Matteocci.

Anche se la procedura di individuazione delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale si è conclusa nel 2015, la carta nazionale non è mai stata pubblicata e rimane secretata. Nel frattempo, sono in corso approfondimenti sulle caratteristiche sismiche dei siti papabili. “In questi mesi stiamo procedendo alla validazione della nuova lista, stilata dalla Sogin.”, conclude Matteocci. La speranza è che non condivida la stessa sorte della precedente.

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