Il mito di Narciso e il suo significato psicologico

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Il mito di Narciso, da cui derivano i termini narcisismo (Significati: 1. Adorazione morbosa di sé stessi, che si esprime nel culto e nella cura maniacale per il proprio corpo e che spinge a improntare a totale egoismo i rapporti con il mondo esterno. 2 estens. Ammirazione eccessiva e compiaciuta per se stessi e per le proprie azioni) e narcisista, porta con sé tanti simbolismi e morali di facili consumo, pronte per ogni occasione. Però i miti hanno un valore profondo, sono stati creati per parlare al nostro inconscio, per aiutarci a capire cosa veramente vogliamo e cosa temiamo, cosa non riusciamo ad affrontare e perché.

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La leggenda di Narciso ed Eco racconta la storia di due opposti, Narciso incapace di guardare al di là di sé stesso ed Eco incapace di aver cura di sé stessa. Il comportamento di Narciso non è meno dannoso di quello di Eco: l’autoreferenza di Eco, incapace  di concentrarsi su se stessa e l’autoreferenzialismo di Narciso sono due facce della stessa medaglia.

Il mito contiene in sé molti elementi di facile lettura per la moderna psicoanalisi, non ultima la figura di Liriope, la madre di Narciso, che pur di mantenere intatta la bellezza del figlio ancora inconsapevole, si reca da Tiresia per avere “l’elisir di eterna giovinezza e bellezza per la prole di cui tanto andava orgogliosa”, ma contiene in sé anche la completezza di due aspetti così opposti tra loro: la vista, Narciso e la voce, Eco.

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Narciso è concentrato su di sé e quasi privo di quello strumento di comunicazione universale che è la voce, ma Eco, che non riesce ad interrompere il suo continuo richiamo, non può far altro che consumarsi nell’assenza del suo amato e nel suo richiamo stesso, unica cosa che sopravviverà alle sue pene d’amore, il suo Eco che ancora aleggia tra antri e caverne.

Se non c’è comunicazione non c’è amore e se non siamo in grado di riconoscere l’amore non siamo in grado di comunicare e l’assenza d’amore è inevitabilmente punita dagli dei, cosi, il rifiuto crudele di Narciso non può non esser punito dagli dei: Nemesi dea della vendetta, viene inviata sulla terra per punire Narciso che morirà nel tentativo di raggiungere la sua stessa immagine. In un modo o nell’altro l’assenza d’amore per sè stessi o per l’Altro, non può che portarci a sparire, è solo quando l’amore per noi stessi è sano e pieno che possiamo dedicarci ad amare l’altro.

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Una bellissima interpretazione del mito viene data dal filosofo Umberto Curi

Non vi è dubbio che il mito tende a sottolineare il carattere fondamentalmente intransitivo dell’amore. L’impossibilità di far si che l’amore, come dire, passi da un soggetto all’altro soggetto, e il fatto che esso resti in qualche modo imprigionato, consegnato, racchiuso all’interno del singolo personaggio. E’ se vogliamo il dramma della impossibilità di comunicare, di corrispondere; o, meglio, è la istituzione di una molteplicità di forme di specularità che non implicano comunicazione: la simmetria, la specularità, la corrispondenza non è di per se stessa un fattore, un elemento di comunicazione. Un secondo aspetto, che è stato sottolineato anche da altri studiosi, è opportuno mettere in evidenza: sotto il profilo del loro significato filosofico queste due figure rappresentano al tempo stesso due estremi apparentemente fra loro incompatibili, ma anche internamente scissi. Narciso è la figura della pura, totale identità, la quale tuttavia giunge, sia pure paradossalmente, all’estremo di identificarsi con la pura e totale alterità di una immagine riflessa totalmente irraggiungibile. Al contrario, o, se vogliamo, come corrispondenza di carattere simmetrico, Eco è invece la pura alterità che consiste in questa totale eteronomia dell’espressione di Eco, in questo non potersi esprimere autonomamente ma solo come riflesso dell’espressione altrui. Ma questa pura e totale alterità costituisce, sia pure in maniera paradossale, l’identità di Eco; e l’aspetto filosoficamente più rilevante di questo incontro, è che l’incontro tra la pura e totale identità, sia pure internamente scissa, e la pura e totale alterità, rende impossibile la comunicazione.

Ciò che accade nel mito così come è ricostruito da Ovidio, è che Narciso è condotto a una morte prematura, ben prima che egli abbia conosciuta una longa senectus, subito dopo il riconoscimento, subito dopo avere esclamato “iste ego sum, nec me mea fallit imago!”, “Questi sono io, né la mia immagine mi inganna!” Il riconoscimento, così come era stato appunto predetto dal cieco veggente Tiresia, è la premessa per la morte. E qui si tratta di domandarsi quale spiegazione offrire di questo aspetto, che altrimenti resterebbe inspiegabile, del mito; aspetto che è poi il più significativo sotto il profilo filosofico. Per quale ragione riconoscersi, da parte di Narciso, vuol dire inevitabilmente offrirsi alla morte? Quale connessione vi può essere tra il riconoscimento e la morte? O, se vogliamo: che cosa di sé stesso ha conosciuto Narciso che lo conduce inevitabilmente alla morte e poi alla metamorfosi? Qui, credo che sia appunto necessario ricordare che il riconoscimento, da parte di Narciso, non e indicato né da Ovidio né, per altro, dalla maggior parte degli autori e degli interpreti in senso generico: Narciso si riconosce come riflesso. Riconoscersi, quindi, come mero riflesso, vuol dire riconoscere un proprio statuto di realtà in qualche modo intrinsecamente difettivo, limitato, contingente: lo statuto del riflesso. Ma poi vi può essere anche un’altra possibilità: Narciso muore perché si conosce, si riconosce come riflesso, e sa che è riflesso di nulla, che non c’è nulla di cui egli sia riflesso, ma che il suo statuto di realtà è solo ed esclusivamente quello di essere un riflesso. Questo riconoscimento, questa conoscenza – la conoscenza di sé come mero riflesso di nessuna altra realtà -, è il preludio che conduce Narciso alla morte.

Tratto dall’intervista: “Amore e conoscenza: il mito di Narciso” – Napoli, Vivarium, 25 giugno1993

Il mito di Narciso

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Un giorno il dio delle acque, rapì la bellissima ninfa Liriope di cui si era innamorato. Tra i due nacque un sentimento tenero e reciproco che portò alla nascita del loro unico figlio: Narciso.

Più cresceva e più Narciso diventava incredibilmente bello, così Liriope decise di consultare l’indovino Tiresia per chiedere come avrebbe potuto fare a conservare in eterno la bellezza del figlio.

Tiresia pronunciò la sua profezia: Narciso vivrà molto a lungo e la sua bellezza non si offuscherà. Ma il giovinetto non dovrà più vedere il suo volto, che immancabilmente si avverò.
Narciso si dedicava alla caccia e a solitarie passeggiate nei boschi, destando il desiderio di mille ninfe e mille volte rifiutandolo e ignorandolo.
Un giorno, sentì tra le gole della montagna una voce che gioiva di canti e risate. Era Eco, la più bella delle ninfe che a prima vista s’innamorò perdutamente di lui. Ma Narciso, incauto e incosciente sia della sua bellezza che dell’amore, la rifiutò. Eco però non riusciva a farsene una ragione, lo seguiva nei boschi pur di vederlo, finché l’amore e il dolore la consumarono, si rinchiuse in una caverna profonda ai piedi della montagna, dove Narciso era solito andare e lì, con la sua bella voce armoniosa continuò a chiamare per giorni e notti il suo amato, che non venne mai.

L’amore non corrisposto consumò Eco, di lei rimase solo la voce inquieta che si nasconde tra le rocce, rispondendo ai richiami. Narciso non se ne curò e la sua indolenza fu punita dagli dei. Nemesi fu inviata per punirlo, e così, un giorno Narciso, abbeverandosi ad una fonte, vide la sua immagine riflessa nell’acqua. Se ne innamorò perdutamente e nel tentativo di raggiungerlo, vittima della stessa pena che aveva inflitto, cadde nelle acque e sparì per sempre. Al suo posto nacque un fiore, ancora oggi conosciuto con il nome di Narciso.

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