Finanza del dark web con la blockchain

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Criptovalute, come funziona e come contrastare il riciclaggio di asset digitali. Gli esperti di Via Nazionale analizzano le modalità attraverso cui il denaro sporco viene “dissociato” dall’attività illecita nel cripto mondo.

    Il riciclaggio. Cioè: la ricchezza di provenienza illecita che viene occultata e dissimulata per poterla re-investire nell’economia reale. È un fenomeno diffuso: in Italia, secondo il National Risk Assesment, potrebbe arrivare al 12% del Pil.

    Il cripto mondo

    Ebbene: nonostante le cripto attività illegali, a detta di Chainalisys, siano meno dell’1% del totale controvalore scambiato, il riciclaggio prende piede anche nel cripto mondo. La Banca d’Italia ha dedicato al tema un Occasional paper di Questioni di Economia e Finanza dal titolo: “Riciclaggio e blockchain: si può seguire la traccia nel mondo cripto?”. Gli autori (Romina Gabbiadini, Lorenzo Gobbi ed Eugenio Rubera), dapprima, ricordano le tre le fasi del reato in oggetto: collocamento, stratificazione ed integrazione.

    La prima è quella in cui i proventi dell’attività illegale sono materialmente collocati presso intermediari finanziari – o altri soggetti terzi -regolamentati.

    Appannaggio della seconda, invece, è l’operatività attraverso la quale il denaro “sporco” viene dissociato dal comportamento illegale attraverso una molteplice serie di transazioni (ad esempio bonifici, pagamenti, prestiti).

    La terza, infine, è il passaggio in cui la ricchezza “ripulita” viene re-inserita nell’economia reale grazie ad operazioni in apparenza legittimi (acquisto di beni di lusso, aziende o beni immobili).

    L’operatività in generale

    In generale, nel cripto mondo, gli asset digitali possono essere utili per convertire la valuta fiat illecita in cripto, sfruttandone lo pseudoanonimato; oppure il reato può nascere direttamente con gli asset digitali.

    Rispetto al primo fronte gli esperti di Bankitalia sottolineano che le strade con cui è possibile convertire la moneta in criptoattività sono quelle degli Exchange, degli Atm per criptocurrency (dispositivi fisici) e, infine, degli intermediari Other the counter (sfruttati soprattutto per le transazioni che coinvolgono grandi volumi di asset digitali).

    E’ normale che, in simili situazioni, i criminali si rivolgono a realtà che si trovano in Paesi considerati ad alto rischio e/o privi di legislazione anti-riciclaggio. Oppure che tendono a disapplicarla. Senza dimenticare, peraltro, il fatto che esistono addirittura siti web i quali forniscono servizi “peer to peer” i quali funzionano senza i controlli cosiddetti “Know your customer”. In altre parole: che non effettuano, ad esempio, l’identificazione dell’utente.

    Il “chain peeling”

    Nella fase di stratificazione – vale a dire quando già ci si trova nel cripto mondo – chi ricicla ha diversi modi per fare perdere le proprie tracce. Un esempio? Il “chain peeling”. Questo, nella sua forma classica, consiste nel suddividere inialmente i token tra due indirizzi (wallet digitali).

    Ciascuno dei due, poi, invia le criptoattività ricevute altre due destinazioni, e così via fino a dividere la ricchezza illecita in tantissimi indirizzi. L’obiettivo finale – visto che le operazioni sono osservabili nella blockchain- è quello di avere importi più limitati di asset digitali al fine di riciclarli con maggiore facilità.

    Il caso dei mixer

    Più orientato a nascondere le tracce sono, invece, i mixer. Si tratta di sistemi i quali, dapprima raccolgono la criptoattività da diversi utenti. Questi token, successivamente, sono mescolati tra di loro e, nella parte finale, vengono ri-trasferiti agli stessi clienti (ma ad indirizzi diversi) per un ammontare pari a quello inizialmente depositato. A ben vedere, i mixer sono assolutamente legittimi.

    E, tuttavia, è piuttosto facile comprendere come simili protocolli – attraverso il “mescolamento” dei token illeciti con quelli legali –rendano difficile la vita a chi vuole risalire all’attività criminale.

    Le “Privacy coin” e i ponti

    Non vanno, poi, dimenticate le cosiddette “Privacy coin”. Qui siamo di fronte ad attività che – ad esempio creando indirizzi unici e temporanei per ogni transazione (indirizzi “stealth”) rintracciabili solo da mittente e destinatario – impediscono di seguire le tracce dell’operatività. Un noto caso di “Privacy coin” è Monero, che permette le transazioni solo in modalità “privata”.

    Infine, tra gli esempi di come la banda Bassotti può riciclare nel mondo cripto, possono ricordarsi i passaggi da una blockchain all’altra. Qui entrano in gioco i “cross-chain bridge”. Di cosa si tratta? In questo caso siamo di fronte a dei protocolli che consentono – attraverso smart contract – il trasferimento di asset e dati tra diverse blockchain.

    Il tipo di tecnologia in oggetto è essenziale per migliorare l’interoperabilità tra le varie catene di blocco, permettendo agli utenti di muovere titoli senza dovere passare da un exchange centralizzato. In generale, quindi, i “ponti” sono in sé assolutamente utili nel cripto mondo.

    Sennonché, similmente ai mixer, vengono sfruttati anche per il riciclaggio. Il criminale, ad esempio, può dividere i fondi in importi più piccoli e trasferirli attraverso le diverse blockchain, complicando il tracciamento degli asset.

    Non solo. Spostando le cripto valute tra varie catene di blocco – che hanno tecnologie diverse – vengono offuscate le loro origini. Un meccanismo che è anche agevolato dal fatto che diversi “bridges” non richiedono misure d’identificazione del cliente o di “anti- money laundering”.

    Fuori dal cripto mondo

    Già, l’ “anti money laundering”. Il riciclaggio, però, richiede che la ricchezza illegale ripulita venga reinserita nel mondo reale. Su questo fronte gli esperti di Bankitalia rimarcano come possano essere usati un po’ tutti i meccanismi descritti per entrare nel cripto mondo.

    Cioè: i criminali sfrutteranno, tra gli altri, gli exchange, gli Atm e gli intermediari Other the counter. A ben vedere – scrive sempre lo studio – è un’operatività in mano a pochi soggetti. Nel 2022, infatti, quattro indirizzi hanno ricevuto più di un miliardo di dollari di provenienza illecita. I wallet che hanno ricevuto piccole quantità di criptoattività illegali (fino a 100 dollari), pure essendo tanti (oltre 1,2 milioni) hanno invece permesso di riciclare solamente 38 miliaidi di dollari.

    La finanza decentralizzata

    Fin qua considerazioni su blockchain e token nel loro complesso. Romina Gabbiadini, Lorenzo Gobbi e Eugenio Rubera, però, giustamente focalizzano l’attenzione anche sulla cosiddetta Decentralised Finance (DeFi). Vale a dire: un’offerta di servizi in cui l’utente interagisce direttamente con software – eseguibili dai nodi di rete – i quali automatizzano azioni predeterminate e irreversibili al ricorrere di condizioni previste (smart contract).

    In un simile contesto è chiaro che – dal punto di vista dell’eventuale attività di contrasto dell’illecito – le cose si complicano. O comunque, cambiano non poco. Le soluzioni per attivare anche su questo fronte dei controlli sono diverse. Tra le altre può ricordarsi la possibilità di prevedere un obbligo di codifica – all’interno dello smart contract – dei meccanismi automatizzati di identificazione e verifica preventiva delle caratteristiche dei soggetti.

    Tra le altre: attraverso soluzioni decentralizzate di identità digitale. In tal modo – dicono sempre gli esperti di Bankitalia – sarebbe possibile rilevare circostanze rilevanti legate alla pericolosità/rischiosità dell’utente (ad esempio residenza in Paesi che rientrano nella black list redatta dal Gafi).

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