
Coronavirus, il Covid-19 non tiene conto delle temperature esterne. Studio climatico di diverse università italiane: “Nessuna relazione tra sviluppo del contagio e gradi centigradi nell’ambiente, difficile che il virus sarà spazzato dall’arrivo del caldo”. I test realizzati a Wuhan, in Lombardia e Veneto.
Non c’è un rapporto tra la temperatura esterna e il virus: la convinzione, crescente, che la primavera si porterà via il “corona” va rivista, o perlomeno irrobustita da studi che oggi non ci sono. Il precedente che, fin qui, ha fatto sostenere l’ipotesi è l’andamento della Sars, microrganismo della stessa famiglia del Covid-19: esplose alla fine del 2002 e se ne andò a luglio 2003. Tuttavia, come ha già spiegato Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, un coronavirus paragonabile a quello odierno contagiò numerosi cammelli in Medio Oriente nel 2014, “in condizioni climatiche non fredde”. D’estate, ricordano gli epidemiologi, si vive meno in luoghi chiusi, aumenta la “distanza sociale” e diminuisce la possibilità di diffusione di questo genere di malattia.
Gli studi sul tema – nello specifico un lavoro multidisciplinare di un gruppo tecnico-accademico (Università Bicocca di Milano, Roma Tre, Chieti-Pescara) di cui fa parte il climatologo Massimiliano Fazzini, professore associato alla Scuola di scienze e tecnologie dell’Università di Camerino – dicono, per ora, che il Sars-CoV-2 non tiene conto delle variazioni climatiche. I riscontri, avviati il 20 gennaio scorso, hanno testato prima l’area di Wuhan, quindi zone particolarmente fredde e calde del globo e, infine, Lombardia e Veneto.
Nell’epicentro iniziale del contagio, la megalopoli di Wuhan appunto, si è constatato che l’intero mese di febbraio, coincidente con il picco dei positivi, la temperatura è stata fredda, ma costantemente superiore alla media (9,2 gradi centigradi contro i 5,8 del trentennio 1971-2000). Le precipitazioni sono state, complessivamente, inferiori alle medie. “Queste anomalie non sono tali da poter amplificare il segnale epidemiologico”, si legge. Se si va ad analizzare l’andamento del contagio giornaliero legandolo a quello termico, ne deriva un coefficiente di correlazione pari a 0,11, “statisticamente insignificante”. La prima conclusione è, quindi: “Il quadro del clima non ha influito in alcun modo sull’evoluzione dell’epidemia”, Così ora, con Wuhan e la regione dello Hubei “virus free”, non si osservano anomalie termiche significative, “tali da poter eventualmente giustificare un rapido calo della virulenza dovuto al segnale termico”.
Focalizzando l’attenzione sul dominio lombardo-veneto, sono stati considerati, in questo caso a partire dal 20 febbraio 2020 e fino al 18 marzo, i dati termici, pluviometrici e del vento di dieci stazioni nei tre focolai principali di diffusione (aree di Codogno, Nembro e Vo’) e in altre quattro province lombarde primariamente interessate (Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia). Anche in questo caso, i coefficienti di correlazione tra la diffusione giornaliera del virus e i parametri meteoclimatici “non hanno affatto evidenziato alcun rapporto statistico”. Non ci sarebbe, dal punto di vista meteo-ambientale, alcuna relazione tra le variazioni climatiche e l’evoluzione epidemiologica del corona.
Conclude il professor Fazzini: “Da più parti si sono fatte svariate allusioni sull’incidenza della variabile temperatura evidenziando che il virus potesse perdere virulenza all’aumentare o al sensibile diminuire di questo parametro; alcuni divulgatori hanno curiosamente evidenziato che il Covid-19 morirebbe oltre i 27 gradi centigradi di temperatura, ma per ora l’indicazione non è confermata dai nostri rilevamenti. Anche le variabili del soleggiamento e del vento non danno indicazioni in questo senso”.
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