Smascherare le bufale online non è inutile, ecco perché secondo i debunker italiani. A dicembre il Washington Post ha chiuso la sua rubrica sulle bufale. Una delle ragioni è che cercare di sbugiardarle, a quanto pare, è inutile: lo dimostra una ricerca realizzata dal CSSLab dell’IMT di Lucca. Eppure c’è chi non ha smesso di farlo: non tutti i debunkers – coloro che si occupano di “debunking”, e cioé di smascherare le storie false – si sono arresi. Tra loro, in Italia, i punti di riferimento sono Paolo Attivissimo con il suo Disinformatico, l’ormai storico blog di debunking (e non solo); il gestore di Bufale.net David Puente e il cofondatore di Bufale un tanto al chilo (Butac.it) Michelangelo Coltelli. Li abbiamo intervistati per capire se quella contro le bufale è davvero una battaglia persa.
Secondo i ricercatori dell’IMT gli sforzi dei debunker, sui social network, raramente raggiungono il bersaglio e, quando ci riescono, ottengono pochi risultati. Ma questo prova che il debunking non serve? «Non credo – risponde Attivissimo – credo invece che lo studio dimostri quanto sia inutile il muro contro muro negli ambienti online citati nella ricerca, e cioé i social». Non va dimenticato che il team di ricercatori si è occupato soprattutto di teorie del complotto e dei loro adepti. «Non ci occupiamo solo di quelli – precisa Coltelli – ma anche di notizie false, pseudo-medicina e truffe». C’è differenza? Sì, perché sul web ci sono «tante persone che cadono in trappole diverse dal complottismo, come i malati alla disperata ricerca di una cura o chi ingenuamente crede a qualche truffa mascherata da occasione irripetibile». Ed è per loro, insiste il fondatore di Butac.it, che c’è bisogno «di un servizio che combatta la disinformazione dilagante».
Anche Puente di Bufale.net ridimensiona la portata dello studio. «Il campione della ricerca – spiega – era composto da utenti Facebook statunitensi, ma Facebook non rappresenta il mondo reale. E poi il debunking è inutile solo per chi è così convinto dell’esistenza dei complotti da arrivare ad accusare chi li contraddice di “far parte del sistema” o di essere “pagato dai poteri forti”. Ma ciò non significa che sia inutile per gli altri». Chi si dedica a sbugiardare le notizie false è abituato a vedere i propri sforzi infrangersi di fronte alle convinzioni ferree di chi ormai ha il pallino per le teorie complottiste. L’admin di Bufale.net la prende con ironia (“Vorrei le prove dei bonifici che ricevo dai poteri forti perché ho un mutuo da pagare!”) e non si scoraggia. Le soddisfazioni arrivano.
Per il collega debunker Coltelli «anche una sola mamma che sceglie di vaccinare i figli grazie ai nostri articoli vale lo sforzo che facciamo ogni giorno». E succede? «Ho ricevuto tante mail da parte di mamme che mi hanno ringraziato per averle aiutate a superare la paura dei vaccini». Non è il solo ad avere storie simili da raccontare. Puente ricorda un dottore sudamericano incontrato su una pagina Facebook dedicata alla presunta terapia anti-cancro di Tullio Simoncini, un ex medico radiato dall’albo nel 2006. «L’ho contattato e gli ho spiegato cosa rischiava fidandosi di un personaggio del genere: mi ha ringraziato per avergli fatto capire a cosa andava incontro». Tutti episodi che non combaciano granché con l’idea che il debunking non serva a nulla. Del resto, Attivissimo ne è convinto: «Esiste una trascurata terra di mezzo, quella delle persone silenziosamente dubbiose, indecise se accettare una tesi di complotto o la sua smentita e riluttanti a esternare questi dubbi sui social network». E aggiunge: «Mi preoccupa l’idea che questo studio, o una sua interpretazione fatalista, faccia passare la voglia di fare debunking a chi oggi si impegna per cercare di fare chiarezza».
Quindi la ricerca secondo cui sburgiardare le bufale non serve è tutta da da buttare? Al contrario: è un utile spunto di riflessione. Per Attivissimo è soprattutto «un buon campanello d’allarme per i debunker aggressivi, perché dimostra, dati alla mano, che il loro metodo non funziona. I battibecchi sarcastici e polemici sui social sono inefficaci: su questo sono perfettamente d’accordo con lo studio». Questione (anche) di metodo, quindi. «Alcuni debunkers – ammette Puente – sbagliano approccio: i complottisti in fondo sono vittime di una cattiva informazione o di veri e propri raggiri. Finché la discussione non si chiude con un “sei pagato dai poteri forti” e finché si mantiene una certa pacatezza c’è ancora una possibilità». A volte l’errore sta a monte, in chi scrive senza preoccuparsi di farsi capire dai non addetti ai lavori. «Se si vuole raggiungere quella parte di pubblico che rischia più facilmente di lasciarsi ingannare dalle bufale – puntualizza Coltelli – bisogna spiegare le cose senza paroloni». L’admin di Butacit ricorda i dati Ocse che segnalano l’alto tasso di analfabetismo funzionale nel nostro Paese: «Quasi un italiano su due non è in grado di seguire un breve testo, di capire un contratto, di apprezzare un editoriale. Occorre ridurre questo gap: fare e insegnare il debunking può dare una mano».
Insomma, «C’è debunking e debunking», come chiosa Attivissimo, e quello fatto bene può funzionare. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare. «Smascherare le bufale – prosegue Attivissimo – mi ha fatto imparare tanto, mi ha fatto conoscere fatti, fenomeni e persone eccezionali, ed è una continua fonte di piacere: probabilmente farei debunking anche se non cambiasse l’opinione di nessuno». Questa confessione è il miglior modo per chiudere questo articolo: sburgiardare le bufale serve. Anche a chi lo fa.
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