Che cosa sa Google di noi: così gli smartphone Android ci tracciano anche quando non li usiamo. Cinquantacinque pagine che non lasciano scampo. E che forse raccontano una realtà già nota: i servizi gratuiti che quotidianamente Google offre a miliardi di persone in tutto il mondo, poi così gratuiti non sono. La moneta con la quale paghiamo l’utilizzo di Android, Gmail, Google Maps e tutto il resto, altro non è che i nostri dati. Il colosso di Mountain View ci conosce meglio di chiunque altro. E il dossier dal titolo “Google Data Collection”, firmato dal professor Douglas Schmidt, lo racconta benissimo. Schmidt, che ironia della sorte ha lo stesso cognome dell’ex amministratore delegato di Google (Eric Schmidt, ndr) è un docente di Computer Science alla Vanderbilt University, ateneo con sede a Nashville, in Tennessee.
Il suo report, che in poche ore è rimbalzato sui media di mezzo mondo, racconta come Google raccoglie e cataloga i dati dei consumatori, tracciandone le loro abitudini e le loro preferenze. Una ricerca unica nel suo genere, che pone dubbi sul trattamento dei dati personali da parte di Big G. Il quadro tracciato è pesante, e dimostra come Google sia in grado di tracciare i suoi utenti a tutto tondo, anche quando i loro smartphone Android sono spenti, oppure quando si sta navigando su Chrome utilizzando la modalità “navigazione in incognito” (anche se in questo caso i dati vengono cancellati non appena la finestra viene chiusa). La raccolta di Big G, insomma, è ad orario continuato. E prosegue anche quando l’utente è convinto di esserne al riparo.
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Android nel mirino
Il dossier poggia le sue basi su alcuni punti chiave e pone pesanti dubbi soprattutto sul sistema operativo Android, recentemente finito sotto l’occhio della Commissione Europea che ha comminato una multa da 4,3 miliardi di euro. Ai fini del suo studio, e per verificare la raccolta passiva di dati da parte di Google, il professor Schmidt ha configurato due smartphone differenti: uno Android (con Google Chrome come browser) e un iPhone (con Safari e senza Chrome).
Entrambi i telefoni sono rimasti inutilizzati per 24 ore. In quel periodo Schmidt ha rilevato che il dispositivo Android ha inviato 900 campioni di dati ai server di Google, di cui circa il 35% era correlato alla posizione, mentre il resto era per Google Play e sui dati del dispositivo. In totale, il dispositivo Android ha inviato nelle 24 ore di inattività circa 4,4 megabyte di dati a Google. Mentre l’iPhone, nello stesso periodo, di dati ne ha inviato 0,76 megabyte, ciirca sei volte meno. I server di Google, invece, hanno inviato poco più di 40 richieste all’ora sul dispositivo Android, rispetto alle 0,73 richieste all’ora su iPhone. Lo stesso confronto ha rilevato che gli iPhone inviano dati 10 volte meno frequentemente ai server Apple rispetto a quanto facciano i dispositivi Android coi server Google.
«I nostri esperimenti – scrive l’autore del dossier – dimostrano che un telefono Android fermo e inattivo (con Chrome attivo in background) comunica le informazioni sulla posizione a Google 340 volte durante un periodo di 24 ore, con una media di 14 comunicazioni dati all’ora». Il robottino di Google, coi suoi oltre due miliardi di utenti, è un’autentica miniera di dati per Big G.
E trasmette informazioni anche quando il device non viene utilizzato. Quando invece si passa alla modalità attiva, cioè quando l’utente utilizza lo smartphone, il flusso di dati trasmessi ai server di Mountain View si moltiplica: «Se l’utente inizia a interagire con lo smartphone Android – è scritto nel dossier – le comunicazioni passive ai domini del server di Google aumentano significativamente». Basti pensare che anche senza interagire con App made in Google, vengono trasmessi ai server di Big G «11,6 MB di dati al giorno, 0,35 GB al mese». Numeri che lasciano dedurre «che anche in assenza d’interazioni con le App di Google, questo sia comunque in grado di operare la raccolta e trasmetterla alle aziende partner per scopi pubblicitari».
Google affamata di dati
Il report di Douglas Schmidt, pubblicato su Digital Content Next, approfondisce anche il business degli annunci di Google. L’autore spiega che la quantità d’informazioni personali che Google è in grado di tracciare grazie alle sue piattaforme (da Chrome a YouTube, da Android a Maps) è «sorprendente». E sostiene che a fine giornata «Google ha identificato gli interessi dell’utente con un’accuratezza scientifica». In questo, Chrome, coi suoi due miliardi di utenti, è determinante. Infine, un cenno – che sa di beffa – su Facebook. Schmidt fa notare, infatti, che mentre lo scandalo Facebook/Cambrdige Analytica ha fatto esplodere una autentica bufera mediatica, Google fino a oggi è riuscita a rimanere abbastanza sotto traccia circa le sue pratiche di raccolta dei dati «pur avendo la capacità di raccogliere molte più informazioni personali sui consumatori».
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