Net neutrality, anche per l’Italia è un pilastro dell’ecosistema della Rete

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Lo stabilisce la proposta di legge approvata all’unanimità alla Camera. Parole chiare: nessuno, nemmeno pagando, può far viaggiare sulla Rete i contenuti e i prodotti digitali alternativamente o più velocemente rispetto a quelli di qualsiasi altro utente. Un passo che riguarda tutti noi. Ecco perché.
A smentita  del comune sentire, Apple potrà testimoniare che alla Camera dei Deputati si fa sul serio. Senza fanfare, la IX Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni ha approvato oggi all’unanimità in sede legislativa (quindi senza passare dall’aula) una proposta di legge che da una parte stabilisce che la Net Neutrality è un pilastro dell’ecosistema della Rete, dall’altra mette in discussione l’interdipendenza blindata tra il sistema operativo e il negozio digitale dello stesso operatore. Che, detta così, sembra roba da fanatici geek e invece riguarda tutti gli utenti.

Sulla neutralità della rete, già ben definita nella Carta dei diritti in Internet voluta l’anno scorso dalla presidente Laura Boldrini, la legge recepisce il meglio di quanto emerso negli ultimi anni nel dibattito che ha coinvolto cittadini, associazioni, enti governativi e internazionali sulle due sponde dell’Atlantico. Il passaggio fondamentale è contenuto nell’articolo 2 dove si dice che “ai fornitori di rete o servizi di comunicazione elettronica non è consentito ostacolare, ovvero rallentare rispetto alla velocità alla quale sarebbe fornito a un utente nella stessa area, avente la medesima capacità di banda e con accesso illimitato alla rete Internet, l’accesso ad applicazioni e servizi Internet”. La prosa è rocciosa, il significato chiaro: nessuno, nemmeno pagando, può far viaggiare sulla Rete i contenuti e i prodotti digitali alternativamente o più velocemente rispetto a quelli di qualsiasi altro utente.

La videoparodia: “Senza Net neutrality avrai un web più ordinato” Apple è particolarmente interessata all’articolo 4 perché vuole che il suo “walled garden”, il bellissimo giardino delle meraviglie in forma di app, resti accessibile solo ai servizi e ai contenuti che l’azienda di Cupertino preventivamente approva. Senza giri di parole, da tempo molti definiscono “censura” la complessa fase approvativa dei prodotti da esporre sugli scaffali dell’App Store, unico negozio al quale gli utenti dei Mac, degli iPad e degli iPhone possono approvvigionarsi di applicazioni compatibili con il sistema operativo iOS. Apple condiziona il via libera alla vendita di un prodotto nell’App Store non alla sua compatibilità tecnica con iOS, ma a caratteristiche che insindacabilmente giudica di proprio gradimento o meno. Per esempio, un editore si è visto rifiutare l’ok perché nelle FAQ (le Frequent Asked Questions, le domande più frequenti) si faceva accenno ad Android, concorrente di iOS sui dispositivi mobili. E’ di scuola il caso americano di un’app di fumetti bloccata per motivi di political correctness. Con la nuova norma, tale prassi sarà impedita. Nel testo approvato ieri si dice infatti che “gli utenti hanno il diritto, indipendentemente dalla piattaforma tecnologica utilizzata, di reperire contenuti e servizi dal fornitore di propria scelta alle condizioni, con le modalità e nei termini liberamente definiti da ciascun fornitore. Gli utenti hanno il diritto di disinstallare software e di rimuovere contenuti non di loro interesse dai propri dispositivi”.

Il testo della nuova normativa è stato presentato due anni fa dal deputato Stefano Quintarelli di Scelta Civica, che nelle vite precedenti all’elezione alla Camera nel 2103 aveva fatto l’imprenditore ai tempi pionieristici di Internet (Inet), lo startupper (in Italia e all’estero), il blogger (Quinta’s weblog), il dirigente editoriale (ilSole24Ore) e parecchio altro. La proposta 2520 è stata poi firmata da altri membri dell’Intergruppo per l’Innovazione. Passata con modifiche marginali, sarà presto all’esame dal Senato. Tra i primi commenti quello del presidente della Fieg Maurizio Costa: “Nei sistemi chiusi, l’utente è costretto o è preferenzialmente indotto a usare determinate applicazioni rispetto ad altre, e ai fornitori di servizi, come gli editori, sono imposte condizioni – commerciali e non – discriminatorie e anticoncorrenziali. La proposta di legge è volta a contrastare proprio tale prassi, nel rispetto del diritto di ciascun utente di attingere informazioni dalla Rete, e nel rispetto di chi l’informazione la produce”.

L’atteggiamento neoimperialista delle imprese globali digitali commerciali (che gli addetti ai lavori chiamano OTT, Over The Top) non è una novità. Come conferma il caso dell’IVA digitale dei prodotti editoriali. Prendiamo una app editoriale distribuita attraverso il negozio digitale di Apple. Una volta approvata dai tecnici di Cupertino, poteva essere scaricata dall’App Store e utilizzata da qualsiasi utente sul proprio laptop, smartphone o tablet. Se a pagamento, la relativa imposta sul valore aggiunto – pari al 15 per cento di quanto pagato dal cliente – veniva direttamente trattenuta da Apple e versata in Lussemburgo, dove l’azienda fondata da Steve Jobs ha la sede europea. In forza della norma One Shop Stop entrata in vigore nell’Unione dal gennaio 2015, Apple era stata chiamata a versare l’imposta non più in Lussemburgo bensì all’agenzia delle entrate del paese dal quale era stato effettuato l’acquisto della app, secondo le aliquote localmente definite (in Italia, il 22 per cento). Ultimo atto: la legge di Stabilità in vigore dal gennaio scorso ha stabilito che l’IVA per i prodotti editoriali digitali italiani sia del 4 anziché del 22 per cento. Chiamata all’adeguamento, da sei mesi Apple sostiene di non essere in grado di distinguere tra prodotti editoriali e non editoriali e dunque continua, illegalmente, a versare secondo la vecchia aliquota del 22. In totale dispregio di una precisa norma di legge.

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