Per la prima volta che un dispositivo elettronico neuromorfico viene direttamente interfacciato con un sistema cellulare per ottenere una piattaforma in grado di riprodurre la plasticità sinaptica a breve e a lungo termine” dichiara Francesca Santoro, ricercatrice all’IIT di Napoli, già inserita nel 2018 da Technology Review nella lista dei più importanti innovatori under 35 del mondo. “Prima di questo studio erano stati realizzati sistemi capaci di ricevere stimoli, ma non in grado di eccitarsi e mantenere l’eccitamento a loro volta”.
E’ il primo vero passo verso un cervello “cyborg” in grado di integrare neuroni e circuiti elettronici, così da poter riparare, in un futuro di cui è difficile prevedere la data, i danni apportati dalle malattie neurodegenerative. Possiamo considerare le sinapsi come dei postini che si incaricano di trasportare un impulso elettrochimico dal neurone che l’ha emesso, ovvero il “mittente” nella nostra metafora, e il neurone che lo riceve, ovvero il “destinatario”. Nella ricerca dell’IIT il “mittente” consiste in un gruppo dii neuroni di topo in grado di emettere il “messaggio”, ovvero il neurotrasmettitore dopamina. Il “destinatario” è un microchip capace di attivarsi – come un vero neurone – dopo la ricezione di una certa quantità di dopamina, e di tenere conto della dopamina ricevuta.
“Questo secondo meccanismo è simile all’apprendimento, perché fa in modo che ai neuroni che comunicano maggiormente tra loro, magari perché sono due concetti che abbiamo associato nella nostra memoria, diventi più facile comunicare ancora di più, rinsaldando la connessione” spiega Francesca Santoro. Esistono già dei chip utilizzati per impianti cerebrali, ad esempio quelli che – secondo un paradigma detto “deep brain stimulation” emettono stimoli in grado di fermare il tremore del Parkinson. “Ma quelli sono chip che, per quanto utili, sono “stupidi”. Ovvero non possono interagire davvero con i neuroni, reagendo agli stimoli che i neuroni emettono. Questa sinapsi bioibrida, invece, permetterà a un circuito – in plastica e non in silicio, e quindi più flessibile e biocompatibile – di rimpiazzare dei neuroni danneggiati”. Per ora la sinapsi artificiale è solo un primo passo in questa
direzione, perché non ha ancora le dimensioni giuste: “Le sinapsi nel nostro cervello misurano 1-2 micron. Invece la nostra sinapsi artificiale è un rettangolo con dimensioni che possono variare tra 10 e 200 micron per un lato, e 40 e 100 micron per l’altro” spiega Santoro.
“L’expertise dei colleghi di Stanford consentirà di miniaturizzare ulteriormente, quindi dovremmo riuscire a piazzare molte più connessioni sinaptiche su un solo chip, creando una rete neuronale più complessa e simile a quelle naturali”. A Stanford già nel 2017 e nel 2019 si erano prodotte sinapsi sintetiche, ma in quei casi si trattava di microchip che non avevano la capacità di dialogare con i neuroni biologici. “Uno dei vantaggi di quelle ricerche è creare reti artificiali complesse a costi bassissimi, realizzate con polimeri plastici, per renderle disponibili anche per applicazioni che oggi non possono essere “intelligenti” perché non riescono a sostenere i costi dell’elettronica basata sul silicio” spiega Santoro. “Pensiamo ad esempio agli “smart textiles”, ovvero i tessuti intelligenti che possono monitorare la nostra salute o adempiere ad altre funzioni: è un esempio dell’utilità di avere delle reti neurali artificiali su un supporto plastico molto più flessibile del silicio”. Le applicazioni della sinapsi artificiale che potranno fare la differenza, però, sono quelle sul versante della salute. “Sul breve termine, chip bioibridi come quello che abbiamo realizzato possono essere usati come piattaforme per testare nuovi farmaci che agiscono sui neurotrasmettitori, perché le nostre sinapsi artificiali possono registrare con grande precisione i cambiamenti che avvengono nei neurotrasmettitori come la dopamina in seguito alla somministrazione di un farmaco” spiega Santoro.
“Sul lungo termine invece il traguardo è un chip impiantabile che sia in grado di computare direttamente in situ, cioè senza bisogno di avere una parte di hardware esterno, delle informazioni. E possa quindi mandare degli stimoli elettrici in base al fabbisogno della zona di cervello che sta stimolando, come per esempio nel caso dell’Alzheimer e del Parkinson, dove le connessioni elettriche delle sinapsi sono andate perse”. Anche chi ha subito l’amputazione di un arto potrebbe trarre giovamento dalle sinapsi artificiali bioibride. “Se dopo un’amputazione si può collegare un arto artificiale a delle terminazioni nervose esistenti, non c’è bisogno di un microchip che faccia collegamento. Ma se le terminazioni nervose non funzionano bene, avere un microchip bioibrido che, come il nostro, riesce a fare computazioni in base ai neurotrasmettitori ricevuti permette al paziente di effettuare i movimenti desiderati con un dispendio d’energia minore. Senza contare che il materiale plastico consente di modellare il microchip in modo che si adatti bene al sito dove viene impiantato”.
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