Padri, madri e troppe ingiustizie. Ma un figlio di chi è figlio? Di chi è figlio un figlio? Non sembra neanche una domanda seria tanto la risposta è ovvia, per chi sa “come nascono i bambini”.
Un uomo ha dato il suo seme vitale, una donna ha dato il suo ovulo vitale, e ha tenuto in grembo e partorito il figlio. Il figlio comune, nuova identità umana che è fusione delle due identità generanti. Così dice la natura, e la natura non dice bugie. Si viene al mondo così, e chiunque giunge alla spiaggia della vita vi giunge da figlio, generato da un padre e da una madre.
Eppure la domanda “di chi è figlio un figlio” può far pensosa la risposta se si fa mente all’intenso significato relazionale della paternità e della maternità nel vissuto durevole, nonché al grande orizzonte concettuale della parola “generare”, non ridotta all’istante fusionale della prima scintilla, ma estesa alla crescita della vita, alla sua fioritura, alla sua maturità. È questo che integra la generazione “secondo il sangue” con la generazione “secondo il cuore”. Il luogo naturale dove ciò avviene è la famiglia.
Non tutto, nella vita concreta, riesce come natura vorrebbe. A volte per sventura di cui nessuno ha colpa, come nei casi di orfanità precoce; a volte per conflitti familiari di cui i figli scontano il dolore, o per trascuranza o abbandono; in casi rari e gravi sono i giudici a toglierli ai genitori, e a cercare altri che facciano da genitori (adottivi) agli abbandonati. I quali dunque son chiamati ancora “figli”, e per la legge son figli eguali in tutto ai figli di sangue. Del resto, per la legge di famiglia la relazione tra figli e genitori, che secondo natura è univoca, per il diritto non è automatica: madre del figlio è colei che partorisce, ma una madre può partorire in segreto in un ospedale e chiedere di non essere nominata, e per la legge non diventa madre; padre del figlio è secondo norma l’uomo che lo riconosce, oppure l’uomo che non lo disconosce se è coniuge della madre partoriente.
Ma vi sono mancati disconoscimenti, e riconoscimenti non veritieri, che dissociano lo status giuridico genitoriale dalla verità naturale. E poiché il figlio ha anche lui qualche diritto, sul punto del conoscere le proprie origini, sorgono talvolta controversie giudiziali di amaro sapore e dolore, per cucire un punto d’incontro tra la verità naturale e una realtà difforme ma consolidata. La Corte costituzionale, con la sentenza 127 del 2020, per un caso di falso riconoscimento di figlio poi ritrattato, ha detto che il giudice deve bilanciare il favor veritatis con l’interesse del figlio all’identità collegata anche ai «legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia».
Ma c’è un’ipotesi in cui la sovrapposizione analogica fra genitorialità legale (anche non vera) e genitorialità naturale è impossibile: quella della coppia omosessuale. Pure ci sono nel mondo Paesi che l’ammettono, e per la coppia maschile danno accesso alla maternità surrogata. Da noi la ripugnanza etica e giuridica verso l’utero in affitto, una pratica che la Corte costituzionale ha definito intollerabile offesa alla dignità della donna e spesso occasione di abusi e di sfruttamento (sentenza n. 33/2021) non è rinunciabile. E si comprende perché la Corte suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, abbia escluso che un atto di nascita formato all’estero per un bambino nato da maternità surrogata e consegnato alla coppia dei committenti come figlio di entrambi, possa essere trascritto in Italia nei registri dello stato civile.
In questi giorni, si ha notizia che il prefetto di Milano ha chiesto al sindaco Sala di cessare la iscrizione e trascrizione di atti di nascita indicanti genitori dello stesso sesso.
Si è riferito non solo all’ipotesi di due maschi, ma anche a quella di due donne nei casi di parto in Italia, e con riserva di tornare in argomento per i parti all’estero. Si è così innescata una diatriba che ha venature surreali, perché se l’esclusione della doppia paternità ha il sigillo della Corte suprema, quello della doppia maternità naviga tra incertezze e contrastanti decisioni dei giudici.
La necessità che una legge chiara indichi la soluzione giusta ai problemi aperti è affermata sia dalla Cassazione sia dalla Consulta, ma non sembra prevedibile a breve. Oggi il nocciolo della domanda di giustizia è per noi nel quesito: “Giusto per chi?”. Se la visuale è quella del diritto di una coppia gay o lesbica ad “avere” figli, è la volontà del desiderio impossibile. Se non a prezzo di una finzione che sottrarrà programmaticamente al figlio il diritto di avere un padre e una madre. È questa l’ingiustizia prima. Dopo non c’è che “la giustizia del giorno dopo”.
Se il diritto del figlio ad avere un padre e una madre è già stato sacrificato, ed è stato messo al mondo così, e si ritrova una madre vera e la sua partner femmina, o un padre vero e il suo partner maschio, che hanno pagato la sua mamma e l’hanno staccato da lei, la giustizia possibile è quella residua, il minor male, o per lui, il figlio, il maggior bene che resta. Sicché potrebbe giovare una relazione giuridica con il partner del genitore vero, a somiglianza di quella, con carattere adottivo. Dunque, con intervento di garanzia giudiziale. Con un supplementare debito d’amore, se possibile.
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