Semplificare, può essere un processo cognitivo utile, ma anche dannoso!

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Penso che a tutti sia capitato di pensare qualcosa che suona come “io non semplifico”; “io odio le semplificazioni”; “semplificare non aiuta”, e così via… ma… ci siamo mai chiesti perché la semplificazione sia un processo così pervasivo? Rispondere a questa domanda è, in realtà, un po’ più difficile del previsto, perché richiede, da parte nostra, lo sforzo di prestare attenzione a tutto quell’insieme di processi, elementi, decisioni e percezioni  a cui solitamente non facciamo caso, concentrati sulle nostre attività quotidiane. Pensiamo, per esempio, a qualcosa di routinario e banale come il percorrere, ogni mattina, il tratto di strada che ci separa dal lavoro, o semplicemente dal parcheggio in cui abbiamo lasciato l’automobile: è un’attività abbastanza semplice, che di norma compiamo quasi senza pensare, magari assorti in ragionamenti, progetti, o anche solo nella lista delle cose che dovremo fare durante il resto della giornata. Ma proviamo, per una volta, a ripercorre quello stesso tratto guardandoci dall’esterno: gradini da salire o ridiscendere, persone da incrociare,  macchine che ci sfilano accanto, marciapiedi da percorrere, indicazioni stradali… saremmo in grado di descrivere il viso dei passanti? O la dimensione di ogni gradino? O, ancora, il modello o il colore delle automobili? Saremmo in grado, se qualcuno ce lo chiedesse, di giurare con assoluta certezza che un determinato cartello stradale sia, ancora, esattamente al suo posto, mattina dopo mattina?
In realtà, per la maggior parte di noi la risposta a quasi tutte queste domande è negativa. Il nostro cervello, infatti, non sarebbe in grado di processare, con la stessa attenzione, ogni singolo elemento e ogni più piccola informazione che riempiono il nostro ambiente fisico e sociale. Per questo motivo, gli esseri umani si comportano come degli economizzatori di risorse: la nostra mente, in pratica, cerca di riuscire a farci interagire in maniera proficua con il resto del mondo, limitando il più possibile lo sforzo cognitivo necessario per farlo.
Così, un po’ come capita quando cerchiamo di ascoltare una conversazione in un ambiente rumoroso, tendiamo a concentrarci su un numero limitato di stimoli essenziali, relegando quelli “superflui” a rumore di fondo. Infatti, è solo quando capita di dover attraversare la strada che prestiamo attenzione alle automobili che, fino a qualche istante prima, erano solo una macchia indistinta che scorreva al nostro fianco.
Lo stesso bisogno di semplificazione affligge ogni nostra interazione con l’ambiente; tornando all’esempio precedente, la ragione per cui non prestiamo attenzione a ogni gradino che compone la scala che dobbiamo risalire è, semplicemente… che non ne abbiamo bisogno. Solitamente, infatti, una volta valutata la dimensione del primo scalino, la applichiamo, in maniera automatica e generalizzata, a tutti gli altri. Questo processo di categorizzazione ha, quindi, la funzione di rendere più organizzate e fruibili le informazioni che provengono dal nostro mondo sociale, dandoci la possibilità di elaborarle in maniera semplificata, anche quando questa semplificazione implica il dare un’importanza eccessiva alle somiglianze tra gli elementi. Ma, anche se qualche volta ci porta all’errore, è questa categorizzazione che guida e agevola il nostro agire: se ci troviamo a dover appendere un chiodo, e non abbiamo a disposizione un vero martello, probabilmente esploreremo il nostro ambiente alla ricerca di un qualsiasi oggetto adatto, sia esso un pezzo di legno, un sasso, un libro, e così via… ignorando le caratteristiche che differenziano i singoli oggetti tra loro, ma che non sono funzionali alla nostra selezione (poco ci interessa, in quel momento, del colore o della forma complessiva) e concentrandoci, invece, su quelle che possono rendere gli oggetti utili al nostro scopo. In questo modo, estenderemo la definizione di “possibile martello” a ogni oggetto che abbia, per esempio, la resistenza e la piattezza sufficienti. Così, invece di avere da analizzare una moltitudine più o meno infinita di oggetti, avremo invece da valutare una serie limitata di insiemi, molto più facili e immediati da processare. Se vogliamo pensare a una realtà sportiva, che tutti conosciamo, è un po’ la ragione per la quale si sono diffuse le come divise nelle competizioni sportive: il fatto che indossino livree tutte uguali rende più facile l’individuazione dei giocatori delle due squadre, senza bisogno di riconoscere, e soffermarsi su, ogni singola faccia.
E così che la nostra ricerca diverrà molto più veloce, grazie al fatto che la nostra capacità di elaborazione è aumentata notevolmente dall’eliminazione degli elementi teoricamente inutili. Ovviamente, una analisi della realtà basata su categorizzazioni e semplificazioni includerà una serie di errori sistematici che ci porterà a sbagliare previsioni, analisi e a procedere a generalizzazioni non corrette, ma la sua funzione adattiva risulta talmente importante da far sì che la nostra mente la applichi, potenzialmente, a ogni situazione: dalla stima delle distanze, alla percezione di sicurezza (la presenza di alcuni elementi ci fa percepire una strada ignota come pericolosa, a prescindere dal fatto che lo sia o meno), suoni. Il problema è che questa funzionalità è talmente pervasiva da far estendere gli schemi categoriali in automatico, portandoci ad applicarli anche a situazioni in cui può essere dannoso, o addirittura pericoloso: l’abitudine di attraversare le strade a doppio senso guardando prima a sinistra e poi a destra deriva da una categorizzazione riguardante il come comportarsi quando incontriamo una carreggiata, ed è valida a prescindere dalla singola via, risparmiandoci quindi la fatica di doverle esplorare ogni volta perché ciononostante, nel momento in cui i sensi di percorrenza si invertono, come accade durante un viaggio in Regno Unito, lo schema tende ad applicarsi in automatico, costringendoci  a un’attività supplementare per evitare di guardare nelle direzioni sbagliate, e rischiare un errore fatale.

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