Pericolo scoppio bolla del debito pubblico in Africa

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Scontro tra Cina, Fmi e Banca mondiale per il debito dei Paesi poveri. Pechino, il maggiore creditore bilaterale internazionale, non vuole svalutare il proprio credito se le organizzazioni legate agli Usa non faranno lo stesso Bloccati i nuovi finanziamenti

Sarebbe molto «carino», per dirla con il ministro delle Finanze giapponese Shunichi Suzuki, se la Cina si aggiungesse agli sforzi di Paesi come lo stesso Giappone, l’India e la Francia per risolvere la crisi debitoria di un Paese come lo Sri Lanka, precipitato nel default con 15 miliardi di dollari di debito obbligazionario.

Ma la Cina, diventata negli anni sempre più “banchiereesattore” e meno “donatore” nei confronti dei Paesi a medio e basso reddito, per ora non cede: non intende svalutare il proprio debito e chiede, anzi, che anche il Fondo monetario internazionale e le banche di sviluppo multilaterali condividano le perdite nell’ambito della politica comune di ristrutturazione del debito delle economie più fragili.

Al G20 finanziario di Washington, il neo governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha detto che Pechino è sì disposta a lavorare attraverso il cosiddetto quadro comune del G20 per la risoluzione del debito, ma al di là della dichiarazione di principio di concreto non c’è ancora nulla. E questo in un momento peraltro in cui, ultimi dati Ocse, nel 2022 ben il 14,4% dell’aiuto pubblico allo sviluppo globale (Aps) è rimasto nelle tasche dei Paesi ricchi.

Una donna con i suoi figli all’interno della favela Rocinha di Rio de Janeiro, in Brasile: l’impennata dei livelli del debito provoca nei Paesi in via di sviluppo la riduzione degli investimenti produttivi nei settori pubblico e privato
Una donna con i suoi figli all’interno della favela Rocinha di Rio de Janeiro, in Brasile: l’impennata dei livelli del debito provoca nei Paesi in via di sviluppo la riduzione degli investimenti produttivi nei settori pubblico e privato

Gli aiuti globali, insomma, diminuiscono, mentre la “trappola del debito” rischia di strangolare un Paese dopo l’altro, con casi ormai al limite come quelli dello Zambia, Paese al quale lo stesso Fmi chiede ancora di proseguire nella ri-strutturazione del proprio debito con i creditori esistenti per poter accedere a 188 milioni di dollari di nuovi fondi. Il problema, per lo Zambia come per tanti altri Paesi, è che il principale creditore esistente è proprio la Cina: e quindi, se Pechino non accetterà una riduzione delle proprie perdite, il governo di Lusaka quei nuovi fondi non li avrà.

Proprio ieri la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) ha lanciato un nuovo allarme: il rallentamento economico globale provoca nei Paesi in via di sviluppo un debito crescente, «una crisi sempre più profonda », a fronte di un sostegno internazionale insufficiente.

L’impennata dei livelli di debito sta riducendo gli investimenti produttivi nei settori pubblico e privato. Il risultato sarà l’aumento delle diseguaglianze, con 39 Paesi che pagheranno ai loro creditori ufficiali esterni più di quanto hanno ricevuto in nuovi prestiti. L’organismo Onu stima che gli aumenti dei tassi di interesse costeranno ai Paesi in via di sviluppo più di 800 miliardi di dollari nei prossimi anni.

Secondo un report Fmi, in Africa la crescita dovrebbe rallentare ancora quest’anno, al 3,6%. Il recente rapporto International Debt Report 2022 della Banca Mondiale sottolinea che ben 75 Paesi che hanno accesso ai prestiti dell’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (International Development Association – IDA) della Banca mondiale oggi spendono oltre un decimo dei loro proventi da esportazioni per sostenere il debito estero, la quota più alta dal 2000, cioè poco dopo la nascita del programma Heavily Indebted Poor Countries (Hipc), promosso congiuntamente nel 1996 dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale.

Quel poco che le economie fragili producono ed esportano, insomma, serve per una discreta porzione solo a ripagare debiti, e questa porzione, negli anni, è andata solo aumentando. All’orizzonte c’è il rischio di una crisi del debito di portata globale, considerando che alla fine del 2021 il debito estero di questi Paesi ammontava a 9mila miliardi di dollari, più del doppio rispetto a dieci anni fa. Sulla questione, il ruolo cruciale della Cina, il più grande creditore bilaterale del mondo, è evidente.

Dal 2008 a oggi, Pechino avrebbe speso 240 miliardi di dollari per “salvare” Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative, soprattutto per una ventina di Paesi tra cui Argentina, Sri Lanka, Pakistan e diversi Stati africani.

Prestando denaro, la Cina allarga la sua influenza nel mondo, oltre a poter mettere nel mirino la infrastrutture chiave di molti Paesi aiutati. Mercoledì, Pechino non ha preso alcun impegno ufficiale nella dichiarazione diffusa da Banca mondiale, Fmi e India, attuale presidente del G20, dopo il primo incontro del nuovo Gruppo sul debito sovrano globale. La dichiarazione stessa, peraltro, ha confermato che sono stati concordati modi per semplificare gli sforzi di ristrutturazione del debito, compresa la condivisione dei dati e calendari più chiari.

Tutto, però, resta ancora un po’ vago, considerato che Pechino non intende né cancellare debiti né svalutarli e il Fmi non vuole elargire nuovi finanziamenti senza una svalutazione, nel dubbio che quei fondi, invece che progetti di sviluppo, vadano solo a ripagare i vecchi debiti, in gran parte proprio verso la Cina. Il cane, insomma, continua per ora a mordersi la coda.

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