I paesi sviluppati, compresa l’Italia, lo hanno vissuto per quasi tutti gli anni Settanta, ma da allora non si è più ripresentato (anzi, Europa e Stati Uniti hanno oggi il problema opposto: non c’è abbastanza inflazione). Di solito vengono individuate due cause per la stagflazione: uno shock esterno, per esempio l’improvviso aumento del prezzo di una materia prima fondamentale (negli anni Settanta fu l’aumento nel prezzo del petrolio deciso dai paesi produttori dell’OPEC), oppure quando le decisioni di un governo causano un danno all’economia, producendo una recessione, e aumentano a dismisura la circolazione di denaro, che a sua volta causa inflazione.
La Cina, scrive il Wall Street Journal, sembra ancora lontana da questi eccessi. Gli ultimi dati mostrano che nel 2019 l’inflazione nel paese era al 4,5 per cento e che l’anno prossimo potrebbe raggiungere il 6 per cento: poca cosa comparata al 15 per cento raggiunto dall’inflazione negli Stati Uniti nel corso della stagflazione degli anni Settanta o al 20 per cento raggiunto in Italia. Secondo le ultime stime, l’economia cinese crescerà del 6 per cento nel 2019, un tasso ineguagliato da nessuna economia sviluppata (né oggi né quarant’anni fa), mentre il mercato del lavoro è sotto controllo: non sembra che prossimamente gli operai cinesi avranno l’opportunità e la forza negoziale per chiedere aumenti di salari che potrebbero contribuire all’inflazione.
Quello che è preoccupante nell’inflazione cinese non è la quantità, ma la qualità, sostiene il Wall Street Journal. A essere aumentati, infatti, sono soprattutto i prezzi del cibo, in particolare quelli della carne di maiale, la più consumata nel paese, a causa di una disastrosa epidemia di peste suina. Tolti gli alimenti, l’indice dei prezzi cinesi è più o meno stabile, ma il prezzo del cibo è complessivamente aumentato del 19 per cento. Il prezzo della carne di maiale, invece, è raddoppiato rispetto al novembre precedente.
Questa situazione è particolarmente preoccupante perché in Cina, a differenza dei paesi più sviluppati, il cibo è la prima voce di spesa di gran parte delle famiglie. In media i cinesi spendono un quinto del loro reddito in cibo, il doppio di quanto si spende negli Stati Uniti. Un aumento nei prezzi degli alimenti può quindi contribuire facilmente all’aspettativa di un aumento generale dei prezzi, il che, spingendo le persone a fare scorte, può diventare una profezia che si autoavvera.
Il governo cinese si trova così di fronte a una scelta complicata. Da un lato potrebbe cercare di stimolare ulteriormente la crescita economica, per esempio abbassando i tassi di interesse così da rendere più conveniente prendere denaro in prestito con cui realizzare investimenti. Ma questa manovra, aumentando il denaro in circolazione, rischierebbe di far crescere ancora di più l’inflazione. D’altro canto tenere alti i tassi di interesse dovrebbe ridurre l’aumento dei prezzi, ma rischia di peggiorare la crescita economica. Insieme ai dati economici di novembre, quindi, la banca centrale cinese è stata costretta a emettere un comunicato contraddittorio, in cui promette allo stesso tempo di mantenere sotto controllo l’inflazione e di stimolare la crescita economica.
Finora la scelta che ha prevalso è stimolare la crescita, e proprio a novembre la banca centrale ha ridotto ulteriormente i suoi tassi di interesse. Secondo numerosi investitori intervistati dall’agenzia di stampa Reuters nel mese di novembre, la banca centrale non vuole che si diffonda l’idea che un aumento dell’inflazione possa cambiare repentinamente questo stato di cose. Stimolare l’economia osservando prudentemente l’andamento dei prezzi sembra che continuerà a essere la strategia cinese almeno per il prossimo futuro.
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