Perché non hai denunciato prima? Anche Beppe Grillo ha usato un argomento simile per delegittimare la donna che ha accusato suo figlio di stupro, ma non funziona così.
Nel video pubblicato lunedì per difendere il figlio dalle accuse di violenza sessuale di gruppo, Beppe Grillo ha cercato di sostenere la tesi della poca credibilità della donna che ha denunciato lo stupro usando due argomenti piuttosto diffusi in questi casi: cosa ha fatto subito dopo la violenza e il fatto che avrebbe dovuto denunciare subito l’aggressione. Grillo ha detto: «una persona che viene stuprata la mattina e al pomeriggio va in kitesurf, e dopo otto giorni fa una denuncia, vi è sembrato strano. È strano».
Chi usa questi argomenti vuole colpire la credibilità di chi denuncia. Ritiene che l’innocenza dell’accusato sia in parte dimostrata dal fatto che la denuncia sia arrivata diverso tempo dopo la violenza subita: in questo caso otto giorni, che Elena Biaggioni, penalista e referente del gruppo legale dei centri antiviolenza D.I.Re, ha sostenuto siano invece «pochissimi», siano «nulla».
La questione dei tempi è ricorrente nei discorsi stereotipati e molto diffusi che si fanno intorno alla violenza di genere. Ed è riassumibile nella domanda: “perché non hai denunciato prima?”. La domanda sottintende, nei confronti della persona che presenta querela, un’intenzionalità subdolamente diversa da quella connessa ai fatti in sé. Ed esprime perfettamente uno dei principali meccanismi che sono alla base della “cultura dello stupro”: la vittimizzazione secondaria, che consiste nel trasferire parte della responsabilità di quel che è accaduto sulla persona alla quale quella cosa è accaduta.
Commentando il video di Grillo, Antonella Veltri, presidente di D.I.Re, si è chiesta: «Non si è consenzienti perché si denuncia “dopo”. E quanto tempo dopo una vittima di stupro perfetta dovrebbe denunciare la violenza?».
Da tempo associazioni, movimenti femministi, gruppi che si occupano di violenza contro le donne, e vittime sostengono che non esista un tempo cosiddetto “giusto” per denunciare (quel “giusto” peraltro è spesso paradossalmente stabilito da chi nega a prescindere le violenze); e dicono che quel tempo non dica assolutamente niente sul fatto che lo stupro sia avvenuto oppure no. Ciò che conta è il tempo necessario alla persona per comprendere ciò che le è accaduto e per decidere cosa fare poi. Pensare lo stupro solo a partire dai tempi della denuncia è infine un argomento che serve a spostare l’attenzione, così come avviene con l’uso di altri argomenti simili: riporta cioè tutto il discorso pubblico intorno alla violenza sulla responsabilità della donna.
La legge italiana comunque prevede un limite di tempo massimo entro il quale si può presentare querela, limite che non a caso è stato esteso nei casi di violenza sessuale.
Il tempo della legge
Nel 1996 in Italia fu approvata una legge che rivoluzionò l’intera idea giuridica di violenza di genere. Tra le varie modifiche, la legge collocava il nuovo reato di violenza sessuale non più nel titolo IX del codice, quello “dei delitti contro la moralità e il buon costume”, ma tra i “delitti contro la libertà personale”.
L’avvocata penalista Elena Biaggioni ha spiegato che in quella riforma del 1996 «in caso di violenza sessuale, il termine concesso per sporgere querela era il più lungo di tutto il codice: sei mesi, mentre il termine generale per tutti gli altri reati era di tre mesi. Nel 2019 con la riforma del cosiddetto “codice rosso” il termine è stato esteso a 12 mesi».
In Italia il reato di violenza sessuale viene perseguito a seguito di una querela, mentre in caso di ipotesi aggravata viene perseguito d’ufficio. La questione della procedibilità è dibattuta ancora oggi all’interno dei movimenti femministi, e ci sono diverse idee al riguardo. Biaggioni ha spiegato comunque che «la ratio della legge è che i casi di violenza sessuale aggravata siano reati così gravi che debbano essere sempre perseguiti, ma è stata mantenuta l’ipotesi base procedibile a querela per lasciare in mano alle donne la possibilità di scegliere se intraprendere la via giudiziaria o meno. Sappiamo infatti che già la fase di accertamento del reato è invasiva e potenzialmente vittimizzante».
La querela per violenza sessuale è inoltre irrevocabile: vuol dire che una volta attivato, il procedimento penale non si può ritirare. Questo è un meccanismo pensato per proteggere le querelanti da intimidazioni e minacce che potrebbero portare al ritiro della querela, ma per alcune un percorso obbligatorio e senza possibilità di ripensamenti rappresenta allo stesso tempo un deterrente.
In generale l’aver esteso i termini per la presentazione della querela è stato considerato un fatto positivo, anche se con qualche problema legato per lo più alla possibilità di provare i fatti a un anno di distanza. Il nostro codice, ha spiegato Biaggioni, prevede un meccanismo che permetterebbe di raccogliere gli elementi probatori urgenti e dunque di assicurare le prove lasciando il tempo alla donna di decidere se procedere o meno. Questo meccanismo però è poco utilizzato: «La maggior parte delle donne che subiscono violenza non si rivolge al pronto soccorso e non chiede l’intervento di qualcuno: questo comporta un’enorme difficoltà probatoria, oltre che un peso enorme per la vittima».
Spesso si pretende che la vittima «abbia un “comportamento modello”» e che denunci immediatamente la violenza subita. Ma molte volte questo non succede, e l’estensione dei tempi della querela è stata stabilita proprio in ragione della peculiarità di questi stessi reati, «o meglio, delle loro conseguenze», ha detto Biaggioni: «Semplificando, non perché una donna il giorno dopo non sappia di essere stata violentata, ma per la delicatezza dell’esposizione di questi fatti».
Familiarità
Come ha spiegato l’ISTAT, le forme più gravi di violenza contro le donne, stupro compreso, sono esercitate da persone che si conoscono. Gli stupri vengono cioè commessi in più del 60 per cento dei casi dal partner, e in percentuali minori da familiari e conoscenti: comunque, non da persone sconosciute. «Nell’immaginario collettivo, si pensa invece allo stupratore che ti aspetta all’angolo della strada, al buio e di notte. Non è così», spiega Cinzia Marroccoli, psicologa, consigliera di D.i.Re e presidente di Telefono Donna di Potenza.
Questo fatto va tenuto presente quando si ha a che fare con la difficoltà di denunciare o con i tempi entro i quali si decide di prendere parola.
Manuela Fraire, psicanalista e femminista, spiega che spesso non si denuncia perché non ci si può credere che le persone che si conoscono e che sono così vicine abbiano compiuto tali violenze: «Seguo pazienti, adulte, che ricordano solo a un certo punto dell’analisi che ci sono stati uno zio, un nonno o un padre che hanno abusato di loro. È terribile e paralizzante scoprire l’animale aggressivo che è nell’altro: l’altro che ti sembrava fino a un momento prima un animale domestico. Così come è molto difficile decidere di dire qualcosa che lei per prima sa che non può dire e che non “deve” essere detto: parlare significa mettere in piazza la propria vita privata e quella della propria famiglia».
Chiara Bastianoni, psicologa e psicoterapeuta in formazione, spiega come sia difficile tracciare linee e confini ben precisi e generalizzabili, quando si parla di violenza sessuale: «La valutazione andrebbe sempre fatta caso per caso. Lo stupro rappresenta infatti un’esperienza pervasiva, che può assumere delle caratteristiche assimilabili a quelle del trauma. Ovviamente ci sono tante modalità per rispondere a eventi di natura traumatica, modi che dipendono anche dalle risorse – intrapsichiche e relazionali – che ciascuna ha, dal contesto in cui vive, dalla sua biografia».
Secondo Bastianoni, spesso si tende a voler “patologizzare” l’evento, o al contrario a banalizzarlo, ma nella realtà non sono sempre soddisfatti gli stessi “criteri”, particolari e specifici, che possano giustificare una diagnosi: «Questo non vuol dire che non possano attivarsi dei meccanismi connessi ad una sofferenza psichica “sotto soglia” che può determinare una risposta o una reazione difensiva all’esperienza vissuta, come ad esempio la rimozione. Sarebbe importante implementare la ricerca su tematiche come questa, anche per dare sostanza e continuità alle scelte da operare. Così come sarebbe fondamentale valorizzare quelle esperienze che operano in questo campo e che, nel tempo, hanno costruito saperi e competenze su tali questioni».
Il tempo necessario
Laura Storti, psicanalista e coordinatrice del Consultorio di psicoanalisi applicata Il Cortile, premette a sua volta che ogni caso è singolare, ma che si possono individuare delle conseguenze comuni in chi subisce una violenza sessuale. Una di queste ha a che fare con il senso di colpa, che può contribuire, insieme a molti altri fattori, a spingere una donna a ritardare una denuncia o a non farla.
«Sembra paradossale, perché la colpa dovrebbe ricadere su chi ha generato l’atto violento. Invece la vittima si sente colpevole. Ci sono millenni di cultura che ci dicono che se una donna denuncia uno stupro questo le si ritorcerà contro, una cultura che tende a colpevolizzare la donna che ha subito violenza», ha detto Storti.
Cinzia Marroccoli, a sua volta, dice che «il senso di colpa può durare per moltissimo tempo proprio perché ci hanno insegnato che se ci troviamo in una situazione del genere in qualche modo ne siamo responsabili o l’abbiamo provocata». Questi meccanismi, tramandati e molto radicati, fanno sì parte della narrazione dominante sulla violenza, ma anche della narrazione che le donne stesse interiorizzano e fanno propria: «L’inconscio del soggetto è il frutto della cultura e il senso di colpa provato dalla donna è il risultato di questo tipo di cultura», conclude Storti.
Oltre al senso di colpa possono esserci l’umiliazione e la vergogna che si provano a causa della violenza, ha detto Marroccoli. La vergogna di «avere subito qualcosa che ha a che fare con la dignità della persona, con la sua intimità, con il suo corpo e con la sua mente. Sono sentimenti che possono portare anche a rimuovere momentaneamente l’accaduto, a far finta di niente, a continuare una vita normale. Spesso si vuole cancellare immediatamente quello che è successo: facendo una doccia, buttando quello che si aveva addosso, che sarebbero l’ultima cosa da fare, dicono le legali. Ma ci si vuole buttare alle spalle e si vuole dimenticare il più in fretta possibile».
La rimozione avviene a livello inconscio: non si decide di rimuovere.
«”Mentre ne parlo mi ritorna tutto in mente”»: Laura Storti racconta che questa è una frase che ha sentito dire tante volte dalle donne, e tante volte lei ha dovuto dire loro che ricordare è un principio fondamentale dell’elaborazione. «Se ricordare è il primo atto dell’elaborazione, è anche vero che i tempi di tutto questo ognuna ha il diritto di sceglierseli». Non è possibile stabilire quindi quanto tempo sia necessario, ma quel tempo è molto spesso necessario ad affrontare tutto il resto: la querela, il processo, gli interrogatori, le domande precise».
A un certo punto subentrano anche paure e timori. I motivi del ritardo di una denuncia, o della scelta di non denunciare uno stupro, dipendono per lo più dai timori di quello che si dovrà affrontare dopo e dalla paura di non essere credute.
Laura Storti racconta un episodio: «Quando lavoravo nel centro per donne in difficoltà La Ginestra, abbiamo accolto una giovane donna che era stata violentata. Si trovava in macchina con il compagno, lui era stato picchiato, lei stuprata, ma non solo: aveva subito anche altre forme di abusi e a un certo punto era anche svenuta. Quando è andata in ospedale, l’infermiera del Pronto soccorso le aveva chiesto in quanti fossero stati. La ragazza rispose che non lo sapeva. E l’infermiera: “Ma come? Se ti hanno scopata in due o in tre non te ne sei accorta?” Questa frase era stata per lei la cosa più violenta. L’ennesima violenza subita». Diverse donne che hanno subito violenza hanno raccontato esperienze simili a questa: hanno cioè testimoniato di non aver trovato un’accoglienza, un ascolto o una preparazione adeguata da parte delle prime persone a cui si sono rivolte, o al pronto soccorso o nei vari commissariati.
Sono paure che hanno un riscontro reale, ha spiegato Marroccoli: «Sappiamo bene che quando andiamo a denunciare una violenza sessuale ci ritroviamo ad essere le imputate e ad essere sottoposte a domande su com’eravamo vestite e così via. La donna sa bene di andare incontro a quella che chiamiamo “vittimizzazione secondaria”. Lo stupro è l’unico reato in cui chi lo subisce si deve difendere quasi più dell’imputato stesso. La narrazione sullo stupro è non credere alla vittima e questo rappresenta un grave e grande deterrente alla presa di parola delle donne».
Il giorno dopo
Nelle ultime ore, e a partire dalla pubblicazione del video di Grillo, sui social è stato lanciato e si è diffuso l’hashtag #ilgiornodopo con il quale le persone sopravvissute a una molestia, a un abuso o a uno stupro stanno raccontando quanto è drammaticamente normale non aver denunciato immediatamente, o non aver denunciato affatto.
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