Eurozona, tassi ed inflazione rallentano il mercato dell’export

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Tassi, le strade diverse di Fed e Bce. L’economia Usa regge e Powell può alzare ancora. L’Europa invece rischia la recessione. Jerome Powell e Christine Lagarde sono arrivati con stati d’animo diversi tra le montagne del Wyoming, dove ieri si è aperto il simposio dei banchieri centrali organizzato dalla Federal Reserve. Entrambi saliranno sul palco oggi, ma se al numero uno di Eccles Building basterà esibire una bella faccia da poker per non spaventare i mercati, a Madame Bce sarà richiesto ben altro sforzo.

Stati Uniti ed eurozona sono al momento affetti da un’inflazione appiccicosa, ma sempre più separati sotto il profilo congiunturale. E questa divaricazione fa una grande differenza quando si deve giustificare la volontà di mantenere una politica monetaria restrittiva.

Di sicuro a Jackson Hole ci sono alcuni convitati di pietra evocati fin dal titolo dell’evento («Cambiamenti strutturali nell’economia globale»): il primo è la Cina, con le tensioni geopolitiche ed economiche che la circondano; l’altro sono gli sviluppi della guerra fra Russia e Ucraina; il terzo è il consolidarsi all’interno dei Brics di un nocciolo duro anti-dollaro. Tre incognite di peso, ma non ancora sufficienti per spostare i riflettori dalla traiettoria dei tassi.

Tassi, le strade diverse di Fed e BceEd è qui, in quello che per Eurolandia appare sempre più come un terreno minato, che Powell ha ancora margini per incastonare, a ottobre o a novembre, la dodicesima stretta che porterà il costo del denaro al 5,50-5,75%. Come sostiene Blerina Uruci di T. Rowe Price, per il capo dell’istituto di Washington «non è il momento di agitare le acque» mostrandosi troppo «hawkish».

Non ne ha neppure bisogno: l’indice Atlanta Fed Gdp Now stima per il terzo trimestre un’espansione del 5,8% sorretta dallo slancio dei consumi, dal rimbalzo della produzione industriale, da un tasso di disoccupazione in calo (al 3,5% in luglio) e dalla tenuta del mercato edile.

Al netto delle nuvole grigie nel cielo a stelle e strisce portate dalla decisione di Moody’s e Standard&Poor’s di declassare alcuni banche e dai 400 fallimenti da inizio anno (il doppio dello scorso anno), si tratta di numeri solidi a sostegno della tesi secondo cui è necessario non togliere il piede dal pedale dei tassi. Anche perché, dopo 13 mesi consecutivi di calo, l’inflazione è salita in luglio al 3,2%.

L’aspetto cruciale del discorso di oggi di Powell non è quindi se i tassi saliranno ancora, ma quando smetteranno di farlo. È però probabile che sul cosiddetto «pivot» il successore della Yellen tenga le carte coperte. La sola certezza è che un eventuale taglio del costo del denaro non arriverà prima del 2024, come peraltro confermato ieri da Patrick Harker, presidente della Fed di Philadelphia, che tuttavia prevede «tassi stabili per il resto dell’anno».

Più complicato appare invece il lavoro della Bce. La Lagarde ha legato le prossime decisioni di politica monetaria ai dati economici, ma se l’inflazione è considerata ancora fuori controllo malgrado il calo di luglio (6,1% dal 6,4% di giugno), la contrazione subita anche dal settore dei servizi mostra che Eurolandia è sul binario della recessione.

Il rallentamento della crescita cinese è un’arma a doppio taglio: se da un lato può accelerare il processo disinflazionistico, dall’altro rischia di indebolire l’export europeo, come già testimoniano le cifre dell’Ocse. L’Organizzazione parigina dà infatti conto che le esportazioni di merci del G20 sono calate da aprile a giugno del 3,1% (dopo +2,2% nel primo trimestre), con l’Italia finita in «rosso» (-0,7% dopo il +4,7% del primo trimestre). Buoni motivi per tenere le mani lontane dai tassi e vedere che succede.

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