Perché l’Italia è diventata irrilevante? Il declino spiegato dalla (spietata) analisi dell’Economist. «In questi giorni Italy SpA è passata di moda» scrive l’Economist in un’analisi spietata del declino delle grandi aziende italiane, che si apre come d’uopo con una citazione del Gattopardo. Il settimanale economico britannico ricorda di aver definito l’Italia «il vero malato d’Europa» già 15 anni fa e rileva che, dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, non si è mai davvero ripresa: la sua economia è più piccola di allora, il suo mercato azionario è calato del 6,2 per cento negli ultimi vent’anni, «solo sette imprese italiane figurano tra le mille maggiori società quotate al mondo. La capitalizzazione di mercato di 77 miliardi di euro della più ricca, Enel, una società elettrica, è un errore di arrotondamento rispetto a quello dei titani tecnologici da trilioni di dollari americani». Inoltre una serie di marchi importanti sono state acquisiti da aziende straniere, mentre altri, da Fiat, a Ferrero, a Campari, hanno spostato la loro sede all’estero, o ci stanno provando (Mediaset). Altri ancora hanno visto il loro valore sul mercato globale ridimensionato.
Tre ragioni principali spiegano la caduta dell’Italia delle imprese nell’irrilevanza. Hanno a che fare con una carenza di capitale finanziario, sociale e umano, che si autoalimenta» scrive ancora l’Economist, che cita una stima dell’agenzia di rating Cerved, secondo la quale « il 7% delle società non finanziarie è a rischio di insolvenza quest’anno. Nel peggiore dei casi potrebbe salire oltre il 10%». Ma la classe dirigente, secondo il settimanale,fa pochissimo per cambiare tutto questo. «Piuttosto che migliorare l’infrastruttura fisica e legale che aiuterebbe tutte le aziende, i soldi del governo vanno a salvare i fallimenti perenni. Quest’anno lo Stato ha salvato ancora una volta Alitalia, compagnia di bandiera in continua perdita. L’Italia non ha equivalenti agli istituti Fraunhofer che aiutano le medie imprese tedesche a rimanere all’avanguardia nei loro campi».
E anche le aziende fanno poco per rinnovarsi, a partire dai loro vertici: l’Economist cita lo studio del 2017 di Guido Corbetta dell’Università Bocconi, secondo il quale «oltre metà delle imprese italiane di prima generazione ha un proprietario-capo che ha più di 60 anni e un quarto uno che ne ha almeno 70. I membri dei consigli di amministrazione italiani sembrano antichi quasi quanto l’arte del Rinascimento che adorna i loro muri». Per chi vuole fare affari, o anche solo il manager, le opportunità sono sempre meno.
Eppure quella dell’Economist non è una sentenza senza speranza: «l’Italia – nota – resta un Paese d’impresa», che vanta numerose aziende leader in tutto il mondo. Ma è il sistema che non funziona più e che ha urgente bisogno di rinnovarsi. È una diagnosi che stride potentemente con l’auto-percezione dell’Italia, ancora imperniata sul mito del Made in Italy. L’epidemia di Covid rischia di accelerare questi processi. Forse però potrebbe anche costringerci a guardare oltre le illusioni per fare le riforme necessarie e recuperare quel declino prima che sia irreversibile. Ma non succederà da sé: è necessario l’impegno di tutti.
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