Supplemento d’indagine sul buco nero cannibale

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Il buco nero Swift J1644+57, colto cinque anni fa nell’atto di fagocitare una stella avvicinatasi troppo, torna a far parlare di sé. Un nuovo articolo pubblicato sulla rivista Nature fornisce nuove informazioni sulla struttura del suo disco di accrescimento.

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno a un buco nero, prodotto dalla disgregazione per effetto mareale della materia che costituiva una stella. Credits: NASA/Swift/Aurore Simonnet, Sonoma State University

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno a un buco nero, prodotto dalla disgregazione per effetto mareale della materia che costituiva una stella. Credits: NASA/Swift/Aurore Simonnet, Sonoma State University

Il buco nero “monstre” che si era ingoiato una stella il 28 marzo 2011 fa ancora parlare di sé, a 5 anni di distanza. Battezzato Swift J1644+57, è stato il primo esempio chiaro ed eclatante di quello che succede quando una stella si avvicina troppo ad un buco nero supermassiccio, dalla massa di circa un milione di volte quella del nostro Sole, molto simile a quello che c’è al centro della nostra Galassia, la Via Lattea.

Ben prima che la stella raggiunga la distanza di non ritorno, comincia a sentire la tremenda forza di marea del buco nero, dovuta al fatto che le parti della stella più vicine al buco nero sentono più gravità delle parti più lontane. La stella si allunga, poi viene dilaniata e si spacca. Circa metà della sua massa viene espulsa lontano, mentre l’altra metà compie il resto del viaggio verso il buco nero. Una quantità immensa di energia entra in gioco, e una percentuale non piccola (qualche per cento) viene convertita in luce. Non solo, ma nel caso particolare di Swift J1644+57 c’è una forte evidenza di un altro fenomeno spettacolare: il lancio di un getto di materia accelerata a velocità vicine a quelle della luce.

È la luce prodotta da questo getto ciò che noi abbiamo visto cinque anni fa, almeno nei primissimi giorni dopo l’inizio dell’evento, grazie alle misure nei raggi X raccolte dal telescopio spaziale Swift.

Un nuovo articolo appena pubblicato sulla rivista Nature (il primo autore è Erin Kara, dell’Università del Maryland, negli USA) chiarisce quello che succede dopo una ventina di giorni, attraverso una analisi attenta dell’emissione in raggi X di questa sorgente, utilizzando dati dei satelliti XMM-Newton dell’ESA e Suzaku, missione congiunta dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa e della NASA. Prima di tutto compare, nell’emissione X, una particolare emissione dovuta alla presenza di ferro. Le sue caratteristiche indicano che questo segnale è prodotto dalla materia che sta accrescendo sul buco nero, non dal getto. Non solo, per ottenerla abbiamo bisogno di un qualcosa che illumini questa materia, sempre nella banda dei raggi X.

L'immagine schematizza il fenomeno della riverberazione della radiazione sul materiale che sta spiraleggiando attorno a al buco nero Swift J1644+57. In celeste è rappresentata parte della sezione del disco di accresciemnto del buco nero e in arancio il getto radio relativistico che si allontana dal buco nero stesso. Gli autori dell'articolo pubblicato su Nature ritengono che l'arrivo ritardato dei segnali legati all'emissione degli atomi di ferro sia dovuto al tempo che impiega la radiazione a percorrere lo spazio tra la sorgente di raggi X e la regione interna del disco di accrescimento, dove viene riflessa. Crediti: Erin Kara et al., Nature

L’immagine schematizza il fenomeno della riverberazione della radiazione sul materiale che sta spiraleggiando attorno al buco nero Swift J1644+57. In celeste è rappresentata parte della sezione del disco di accresciemnto attorno al buco nero e in arancio il getto radio che si allontana dal buco nero stesso. Gli autori dell’articolo pubblicato su Nature ritengono che l’arrivo ritardato dei segnali legati all’emissione degli atomi di ferro sia dovuto al tempo che impiega la radiazione a percorrere lo spazio tra la sorgente di raggi X e la regione interna del disco di accrescimento, dove viene riflessa. Crediti: Erin Kara et al., Nature

Se questa “lampadina” facesse parte di un getto veloce, non riuscirebbe ad illuminare la materia che sta accrescendo, e non vedremmo nessuna emissione dovuta al ferro. Quindi può essere sì l’inizio di un getto, ma a patto che si muova lentamente. E dove può essere? Analizzando bene i dati si può scoprire anche questo. Quello che gli autori dell’articolo hanno trovato, infatti, è che l’emissione è molto variabile, a tutte le frequenze della banda X sotto osservazione. Anche l’emissione dovuta al ferro varia, ma dopo un ritardo di circa 100 secondi dalla variazione che si osserva ad energie maggiori. Risultato: l’illuminatore, la sorgente che illumina la materia in accrescimento, è a una distanza di circa 100 secondi-luce da questa. E questo corrisponde a meno di 10 volte il raggio di non ritorno del buco nero.

La grande vicinanza fa sì che gli effetti della relatività generale non siano per niente trascurabili. Per esempio, se il buco nero ruotasse, trascinerebbe nel suo moto lo spazio circostante, come una trottola in una vasca d’acqua, con effetti misurabili sull’emissione del ferro. Dopo la scoperta delle onde gravitazionali, questo è sicuramente un periodo d’oro per la relatività generale!

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