I “super topi” che vedono nell’infrarosso vicino. Iniettando negli occhi di alcuni topi dei dispositivi nanoscopici che convertono la luce nell’infrarosso vicino in luce verde visibile, gli animali sono diventati capaci di vedere nell’infrarosso. Con un’iniezione di dispositivi nanometrici fini come grani di polline, due biotecnologi hanno dato ai topi la capacità di percepire la luce nel vicino infrarosso, un’abilità che si riteneva riservata a pochi animali, fra cui alcuni serpenti, insetti e pipistrelli, e a esseri umani muniti di apposite attrezzature. Uno degli scienziati, Gang Han, biochimico alla University of Massachusetts Medical School, chiama i roditori sperimentali “super topi”. I risultati ottenuti dai ricercatori sono descritti su “Cell”.
Gli occhi dei topi e degli esseri umani possono rilevare solo fotoni di lunghezze d’onda comprese tra 400 e 700 nanometri, un’esigua porzione dello spettro elettromagnetico. Le lunghezze d’onda minori e maggiori, come quelle degli ultravioletti e degli infrarossi, generalmente sono invisibili a entrambe le specie. La cornea e la lente filtrano la maggior parte della luce ultravioletta, mentre la luce infrarossa è troppo debole per attivare i fotorecettori dei nostri occhi. “E’ un limite fisico al nostro spettro visibile”, dice Tian Xue, docente di scienze della vita all’Università di Scienza e Tecnologia della Cina. “Ma poi Gang mi ha detto che [stavano studiando] questo materiale insolito”.
Si riferisce ai cosiddetti nanomateriali di conversione fotonica, così chiamati per la loro capacità di convertire i fotoni invisibili a bassa energia (compresa la luce infrarossa) in bit di luce visibile a energia più alta. La chiave di questa funzione sta nella composizione dei nanomateriali, dice Chris Murray, scienziato dei materiali all’Università della Pennsylvania, che non è stato coinvolto nel lavoro. “Sono fatti di un gruppo di elementi chiamati metalli delle terre rare”, dice. “Una delle loro affascinanti proprietà è che hanno stati di eccitazione molto duraturi”.
Quando un atomo tipico assorbe energia (per esempio da un fotone che lo colpisce), alcuni degli elettroni che girano intorno al nucleo dell’atomo “danzano” secondo un modello diverso, più energetico, ma solo per un tempo molto breve. Poi gli elettroni ricadono rapidamente nelle loro posizioni precedenti e l’atomo espelle l’energia immagazzinata sotto forma di un altro fotone. Per la maggior parte degli elementi, quel lasso di tempo dura miliardesimi di secondo.
Ma per i metalli delle terre rare, questo stato eccitato può durare milionesimi o addirittura millesimi di secondo: un tempo sufficiente perché un altro fotone colpisca l’atomo e accumuli più energia, dice Murray. “È come se qualcuno salisse sui gradini di una scala scivolosa”, aggiunge. I metalli delle terre rare “hanno un po’ più ‘aderenza’, così puoi rimanere su quel secondo gradino abbastanza a lungo da permettere alla prossima ondata di energia di portarti al gradino successivo”. Questo permette ai metalli delle terre rare di assorbire più fotoni a bassa energia – compresi quelli della gamma infrarossa – e di rilasciare quell’energia come un singolo fotone a più alta energia, nella gamma visibile.
Quando Han parlò a Xue dei materiali che sfruttano questa proprietà dei metalli delle terre rare, i due svilupparono quella che Xue chiama “un’idea folle, da fantascienza”. Se quei metalli fossero stati integrati negli occhi di un animale sotto forma di nanomateriale, si sarebbe potuta convertire la luce infrarossa invisibile in luce visibile, in modo da trasmettere le informazioni visive a infrarossi direttamente alla retina, creando così degli occhi da cyborg. “Eravamo scettici sul risultato”, dice Xue. “Ma tentar non nuoce”.
Han e Xue hanno costruito le loro nanoparticelle usando due metalli delle terre rare, l’erbio e l’itterbio, insieme a una proteina chiamata ConA. “L’itterbio assorbe la luce [infrarossa], poi trasferisce quell’energia a un atomo di erbio vicino, che la emette come una luce verde”, dice Han. In particolare, il nanomateriale assorbe la radiazione a 980 nanometri, nell’infrarosso vicino (che è relativamente vicino al limite rosso dello spettro della luce visibile). La proteina ConA si lega alla particella e concorre a condurre le nanoparticelle fino alle cellule sensibili alla luce, o fotorecettori, dell’occhio. Quando le nanoparticelle entrano nell’occhio, la proteina fa sì che le nanoparticelle aderiscano alla superficie dei fotorecettori, come i molluschi a uno scoglio.
In teoria, dice Han, questo dovrebbe permettere all’occhio di interpretare la luce infrarossa come luce verde, poiché il nanomateriale emette un fotone a luce verde che (circa metà delle volte) interagisce con i fotorecettori naturali dell’occhio.
Per verificare se questo permetteva a un topo di vedere la luce nell’infrarosso vicino, Han e Xue hanno eseguito tutti i test che sono riusciti a farsi venire in mente, confermando che i fotorecettori modificati inviavano segnali elettrici al cervello quando interagivano con la luce infrarossa.
Hanno fatto risplendere la luce infrarossa negli occhi modificati dei topi per vedere se le loro pupille si sarebbero contratte, e così è stato. I topi non modificati invece non hanno risposto in modo simile. “Davvero ingegnoso”, dice John Rogers, ingegnere biomedico della Northwestern University. che non ha preso parte alla ricerca. “I più convincenti però sono stati i test comportamentali”.
In uno di questi test, Han e Xue hanno messo i loro topi modificati, uno per volta, in una piscina dove rischiavano di annegare se non avessero trovato una piattaforma nascosta. I topi erano già stati addestrati a riconoscere un’insegna a LED che mostrava un modello o una forma sopra la piattaforma. “I topi vogliono starsene al sicuro sulla piattaforma”, dice Xue, quindi nuotano direttamente verso l’insegna.
Xue ha poi sostituito i LED visibili con LED invisibili, che emettevano nell’infrarosso vicino. I topi senza l’iniezione di nanoparticelle hanno vagato senza meta nella piscina. Ma quelli modificati hanno trovato immediatamente la piattaforma. Xue dice che gli sono venuti i brividi. “Noi non riuscivano nemmeno a vedere il [segnale LED] ma ogni volta il topo nuotava verso il punto giusto. Era piuttosto inquietante”, racconta. Significava che i topi usavano la loro vista al vicino infrarosso per distinguere forme e modelli, e che sfruttavano in modo efficace questa capacità avanzata.
La luce infrarossa ambientale è sempre presente sulla superficie terrestre, ma agli esseri umani è potenzialmente più utile di notte, quando la luce visibile è insufficiente. “Ecco perché gli esseri umani hanno inventato gli occhiali per la visione notturna”, dice Han. Questi dispositivi convertono la luce infrarossa ambientale in luce visibile su un display, permettendo alle persone di vedere al buio. Han spera che la nuova tecnologia un giorno possa raggiungere uno scopo simile. “Se è nell’occhio, quindi nessuno sa che ce l’hai”, dice, “puoi diventare un superuomo”.
Tuttavia, quel sogno è molto lontano dalla realtà, nota Murray. “Questa ipotesi ‘fantascientifica’ – dotare un organismo di maggiori capacità – è affascinante”, dice “ma è un po’ forzata. Quei materiali non sono ancora così efficienti”. Per prima cosa, di notte non c’è abbastanza luce infrarossa ambientale perché queste nanoparticelle riescano creare un’immagine davvero coerente. Inoltre, prima di qualsiasi uso commerciale su esseri umani le nanoparticelle di Xue e Han dovrebbero passare attraverso un lungo processo di approvazione da parte della U.S. Food and Drug Administration, compresi test su primati non umani e una serie di dimostrazioni di sicurezza, che potrebbero richiedere anni.
Ma Murray intravede altre possibili applicazioni. “La luce infrarossa può viaggiare molto più a fondo nel corpo per fare quello che vuoi che faccia”, dice. Così ipotizza che queste nanoparticelle potrebbero essere usate per stimolare l’attivazione di farmaci sensibili alla luce o in punti che la luce visibile non può raggiungere facilmente. Oppure potrebbero essere usate per studiare come la luce visibile interagisce con i nostri organi interni. “Proiettare luce nel corpo ha effetti che non comprendiamo appieno perché lì non ci sono normali fotorecettori”, dice Murray. “La possibilità di una simile eccitazione profonda mediante questi materiali è un ambito di ricerca stimolante”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 28 febbraio 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
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