Einstein in bilico sulla riga del ferro, se la costante di gravitazione universale non è costante. Le stelle di neutroni possono essere usate come banco di prova della teoria della relatività generale grazie a un nuovo metodo teorico sviluppato da due astrofisici dell’Inaf di Arcetri. Ne parliamo con Niccolò Bucciantini, primo autore dello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
Sebbene negli ultimi cento anni la teoria della relatività generale di Einstein abbia mietuto un numero indicibile di successi e sia stata confermata da numerose prove sperimentali, ci sono alcuni suoi aspetti che per gli scienziati non sono ancora del tutto soddisfacenti. Come già hanno dimostrato sia l’esperimento di Eddington con l’eclissi di Sole del 1919 sia l’osservazione del buco nero nella galassia Messier 87 avvenuta esattamente cento anni dopo, lo studio della propagazione della luce è senza dubbio il miglior modo di verificare la forma dello spazio-tempo, e quindi ottenere conferme osservative della relatività generale. Partendo dall’ipotesi che G – la costante di gravitazione universale, che nella relatività generale è appunto costante – sia variabile e dipenda dalla distribuzione di materia, è stata studiata per la p
rima volta l’alterazione della forma della riga spettrale del ferro rispetto a quanto previsto dalla relatività generale.
I risultati sono stati pubblicati questo mese su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society in un articolo scritto a quattro mani da Niccolò Bucciantini, ricercatore all’Inaf di Arcetri, e Jacopo Soldateschi, che sta svolgendo il suo dottorato di ricerca proprio su modelli alternativi di gravità applicati alle stelle di neutroni. Bucciantini, originario di Prato, dopo un lungo periodo all’estero – prima a Berkeley, in California, poi a Stoccolma, in Svezia – dal 2011 è di nuovo in Italia, dove si occupa di astrofisica relativistica e di simulazioni numeriche di stelle di neutroni e nebulose da pulsar. Gli è stato dedicato l’asteroide 235999 Bucciantini dagli astrofili di San Marcello Pistoiese, ma l’astronomia non è la sua unica passione: è un lettore vorace, dedica il suo tempo libero al trekking e alla musica classica. Media Inaf lo ha intervistato.
Come mai ancora uno studio sulla relatività generale di Einstein, dopo oltre cento anni dalla sua formulazione?
«Nonostante molti sforzi, a oggi non è stata formulata una teoria quantistica della relatività generale. Per questo, i fisici teorici hanno cercato di estendere la teoria di Einstein ad alcuni casi specifici che presentano tuttavia comportamenti anomali in alcune condizioni. Le osservazioni cosmologiche richiedono la presenza di materia oscura ed energia oscura a oggi non rilevabili direttamente dagli acceleratori di particelle, cosa che rende molto difficile una conferma – o una smentita – della teoria di Einstein».
Ma la teoria della relatività generale non è già confermata?
«Sì, al momento tutte le osservazioni la confermano, ma esistono molte alternative compatibili con i risultati presenti. La ricerca di nuovi modi per mettere alla prova Einstein, anche solo di fare un po’ di “ordine” fra le varie teorie alternative, è pertanto uno sforzo necessario».
Qual è il contributo innovativo del vostro studio?
«È stato sviluppato un codice che traccia la radiazione dal disco di materia in accrescimento fino all’osservatore, tenendo conto del fatto che non solo cambia la traiettoria della luce che arriva all’osservatore, ma lo stesso moto del disco di accrescimento non è più lo stesso. Il ferro contenuto in tale materia, una volta riscaldato, emette luce a una frequenza caratteristica, generando una riga di emissione che ha una forma ben precisa e riconoscibile. Per la prima volta abbiamo studiato come la distribuzione della massa – ovvero la presenza di un campo scalare – possa alterare la forma prevista della riga del ferro rispetto alla relatività generale».
Sembrano concetti molto complessi. Possiamo fare un passo indietro?
«Tra le poche teorie considerate estensioni della relatività di Einstein che sembrano funzionare bene, ci sono le cosiddette teorie scalare-tensore, formulate a partire da una teoria di Brans e Dicke della gravitazione del 1961. L’idea di fondo di questa teoria è che la costante gravitazionale G non si presume essere costante ma può quindi variare nello spazio e con il tempo. La costante G descrive la forza dell’accoppiamento tra spazio-tempo e materia-energia e nella relatività generale è appunto costante, mentre nelle teorie scalare-tensore viene sostituita con una quantità variabile (un cosiddetto “campo scalare”), che dipende a sua volta dalla distribuzione di materia. Questa sostituzione introduce degli effetti che possono riprodurre le osservazioni cosmologiche. Allo stato attuale, sia le teorie tipo Brans-Dicke sia la relatività generale sono generalmente d’accordo con l’osservazione».
Perché utilizzare le stelle di neutroni?
«Nel 1993 Thibault Damour e Gilles Esposito-Farèse hanno scoperto che, in presenza di oggetti di grande massa molto compatti come le stelle di neutroni, le teorie scalare-tensore possono dare luogo a un fenomeno noto come “scalarizzazione spontanea”, che porta a sostanziali deviazioni dello spazio-tempo dalle predizioni della relatività generale. Questo rende le stelle di neutroni un laboratorio perfetto per testare queste teorie. Si pone dunque il problema di andare a studiare lo spazio-tempo nelle immediate vicinanze di una stella di neutroni, entro al massimo qualche raggio. Per fare questo abbiamo bisogno di una sorgente di luce di cui conosciamo bene le caratteristiche che si trovi vicino a una stella di neutroni. Quando la stella di neutroni si trova in un sistema binario con una compagna di piccola massa, il disco viene illuminato nei raggi X a causa dell’energia rilasciata nell’accrescimento, ed emette radiazione di fluorescenza particolarmente intensa in corrispondenza di una riga del ferro. A causa della propagazione nello spazio curvo intorno alla stella di neutroni, e del fatto che il disco da cui la radiazione proviene ha una velocità orbitale ben definita, la riga osservata ha una forma molto peculiare che può essere usata per misurare la forma stessa dello spazio-tempo».
Non si potrebbe applicare questa tecnica anche ai buchi neri?
«Questa tecnica della riga del ferro è già stata usata in passato studiando i dischi di accrescimento dei buchi neri, ma fondamentalmente sempre assumendo che la relatività generale fosse giusta. La cosa buffa è che si è capito che per uno studio a questo riguardo i buchi neri non sono affatto utili, perché tutta la materia è concentrata dentro l’orizzonte degli eventi».
Ora come ora, siamo in grado di osservare questo fenomeno?
«Gli effetti di questo fenomeno sono molto piccoli, dell’ordine di qualche percento rispetto ai risultati attesi dalla relatività generale. Con i telescopi attuali questi effetti non sono certamente osservabili, dato che per poter misurare la forma della riga del ferro con sufficiente precisione è necessario raccogliere moltissimi fotoni, ben oltre di quello che gli attuali telescopi possono fare. Tuttavia, in futuro, telescopi della classe di Athena (Esa) destinato all’astronomia a raggi X (lancio previsto nel 2030) renderanno possibile osservare la presenza di questi debolissimi effetti, con esposizioni lunghe anche alcuni giorni. Ovviamente non è certo con una singola misura o osservazione che potremmo stabilire in maniera definitiva se la relatività generale è corretta o no, ma solo attraverso una molteplicità di osservazioni possibilmente indipendenti fra loro. Il nostro è solo un piccolo contributo in tal senso: un modo diverso e alternativo per verificare la validità della teoria di Einstein rispetto a una sua possibile alternativa».
Per saperne di più: Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Iron line from neutron star accretion discs in scalar tensor theories”, di Niccolò Bucciantini e Jacopo Soldateschi
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