HOUSTON, abbiamo un problema. E no, stavolta le piogge di meteoriti o gli scudi termici non c’entrano nulla. La patata bollente che sta per esplodere alla Nasa riguarda niente meno che le tute spaziali, affascinanti involucri protettivi degli astronauti indispensabili per garantirne la sopravvivenza e l’attività extraveicolare, oltre che di volo. A quanto pare il programma di ricerca sull’argomento è stato un autentico flop: in dieci anni, dal 2007, l’agenzia spaziale a stelle e strisce ha speso oltre 200 milioni di dollari senza partorire l’erede della Emu, la Extravehicular mobility unit attualmente utilizzata dagli equipaggi della Iss insieme alla russa Orlan.
Lo racconta un rapporto dell’ispettorato generale della Nasa, il massimo organo di verifica interna presieduto da Paul K. Martin, appena pubblicato. All’interno si legge che l’agenzia è lontana “molti anni” dalla realizzazione di nuove tute che siano pronte per le inedite e complicate missioni umane nello Spazio profondo. E questo, appunto, nonostante i massicci finanziamenti degli ultimi anni oltre che i diversi contest e sondaggi online lanciati al grande pubblico dall’agenzia, mosse utili solo al ritorno d’immagine.
Non basta. Secondo il rapporto il problema non riguarderà solo i sistemi legati alle missioni come Orion, in programma a partire dal 2021, ma tocca anche la situazione attuale nella Stazione spaziale internazionale. “Solo 11 delle 18 unità originali della Emu sono ancora in uso – si legge nel documento – e questo solleva preoccupazioni sull’equipaggiamento, che potrebbe non essere sufficiente fino alla conclusione della missione Iss” in programma per il 2024. Prima di costruire un avamposto sulla Luna nel prossimo decennio o provare a lanciarsi nel 2030 verso Marte, oltre che appunto far decollare il programma Orion, insomma, bisognerà risolvere il problema del vestiario: nuove tute in grado di adattarsi a diverse necessità.
“Missioni differenti richiedono design diversi e la mancanza di un piano formale e specifico sulle destinazioni per le missioni future ha complicato lo sviluppo – si legge nel documento, che dunque mette sotto inchiesta anche la fumosità della tabella di marcia per i prossimi decenni – in più l’agenzia ha tagliato i fondi dedicati allo sviluppo delle tute spaziali destinandoli ad altre priorità come gli ambienti di vita spaziali”. Peccato che senza quelle attrezzature ogni progetto su “case” e insediamenti lunari non abbia senso.
Negli anni questi oggetti sono cambiati moltissimo: rispetto alla Mercury, la tuta indossata da Gordon Cooper, uno dei primi astronauti reclutati dall’agenzia statunitense, ma anche dal primo uomo in orbita John Glenn, sono ormai piccoli capolavori d’ingegneria in grado di garantire pressurizzazione, respirazione e comunicazione. L’abbiamo conosciuta bene il 16 luglio 2013, quando l’astronauta italiano Luca Parmitano tenne il mondo col fiato sospeso a causa dell’acqua di condensa finita nel circuito di ventilazione e penetrata nel casco fino a compromettere le comunicazioni. E a rischiare la vita del tenente colonnello siciliano.
La Mercury era niente più che una versione modificata della tuta dei piloti della Marina Usa. La prima vera tuta spaziale comunemente intesa fu la Gemini, introdotta nel 1963, da poter sfruttare all’interno e all’esterno del veicolo: era infatti quella che indossava Ed White il 3 giugno 1965 per la prima passeggiata spaziale. Più avanti sarebbero arrivate la A7L, quella delle missioni Apollo e delle passeggiate lunari di Neil Armstrong e Buzz Aldrin, e la Advanced Crew Escape suite, la tuta arancione dello Space Shuttle preceduta nel 1981 da un modello simile ma di nuova concezione rispetto al passato.
Insomma, dei tre programmi dedicati allo sviluppo delle nuove tute non ne è andato bene neanche uno. Solo il defunto Constellation, per esempio – quello che avrebbe dovuto riportare gli astronauti sulla Luna, cestinato nel 2010 da Barack Obama – è costato 80 milioni di dollari fra 2011 e 2016. Così la Nasa rischia, dopo anni di ritardi e sprechi, di ritrovarsi senza nuove tute, costretta a trattare nel modo migliore le 11 superstiti, costruite per durare non più di 15 anni e ormai ben oltre la durata massima, e senza la possibilità di testarne di nuove sulla Iss prima che questa vada in pensione. Per rendere tutto più complicato c’è da aggiungere che di quelle 11 Emu solo 4 si trovano sulla Stazione spaziale. Se i lavori della Iss dovessero essere prolungati al 2028, la situazione si farebbe ancora più critica.
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