Come scoprire vizi e virtù della relatività generale, osservazioni più precise aiuteranno a risolvere la questione. Un nuovo metodo numerico per testare la validità della relatività generale su scale cosmologiche è l’oggetto di uno studio pubblicato su Nature Astronomy. Abbiamo intervistato uno degli autori, Matteo Martinelli dell’Inaf di Roma.
La relatività generale: una delle teorie più complesse, rivoluzionarie e affascinanti che siano mai state formulate. Nata dalla mente di Albert Einstein in due formulazioni, quella speciale e quella generale, continua a raccogliere conferme osservative e poche, per non dire nessuna, smentita. Moltissime misurazioni, estremamente precise, degli effetti da essa predetti sono state effettuate sul nostro pianeta e all’interno del Sistema solare tramite i dati forniti da satelliti e sonde.
Queste si riferiscono solo alle nostre immediate vicinanze, ma la relatività generale è applicata all’interno dei nostri modelli per descrivere l’evoluzione dell’intero universo. Su di essa si basa, infatti, il Modello cosmologico standard. Su scale cosmologiche però, che coprono le distanze tra le galassie fino alle dimensioni degli ammassi di galassie, le conferme osservative e i dati non sono altrettanto precisi. È compito dei cosmologi formulare possibili test della gravità per capire se anche a queste scale la relatività generale continui a essere una buona descrizione dell’interazione gravitazionale o se la teoria debba essere in qualche modo rivista. Ci hanno provato, in un articolo pubblicato su Nature Astronomy, alcuni ricercatori usando dati da telescopi da terra e dallo spazio. Cos’hanno trovato ce lo racconta uno dei coautori, Matteo Martinelli dell’Inaf di Roma.
Quali misure si possono fare, per trovare conferme della relatività generale alle grandi scale?
«Abbiamo, anche a livello cosmologico, alcune indicazioni della validità della relatività generale, come ad esempio l’osservazione di lenti gravitazionali o, più recentemente, la rivelazione di onde gravitazionali, fenomeni entrambi predetti dalla teoria di Einstein. Ciò non esclude però che l’interazione gravitazionale possa deviare da quanto predetto dalla relatività generale. Le recenti osservazioni delle strutture presenti nell’universo (galassie e ammassi di galassie), effettuate tramite misure della distribuzione delle galassie, possono darci informazioni su questo argomento».
In che modo?
«La relatività generale consente di fare delle predizioni teoriche su come queste strutture si formano a partire dalle piccole fluttuazioni di densità di materia presenti all’origine dell’universo e, confrontando queste con quanto osservato, possiamo pensare di effettuare dei test sulla validità della teoria di Einstein».
Quindi come avete proceduto?
«Il nostro lavoro parte da un approccio ben noto nella letteratura: abbiamo modificato le equazioni che descrivono la formazione e l’evoluzione delle strutture cosmologiche in modo “fenomenologico”. Questo significa che non abbiamo utilizzato nessuna teoria alternativa alla relatività generale, ma abbiamo inserito all’interno delle equazioni dei parametri che possono essere vincolati confrontando le nostre predizioni teoriche con i dati osservativi. Nel caso i dati siano in accordo con la relatività generale, il valore di questi parametri sarà tale che le nostre equazioni ritornino identiche a quelle scritte nella teoria di Einstein, mentre in caso contrario il loro valore ci permetterebbe di capire quali assunzioni di questa teoria debbano essere riviste».
Si tratta di un approccio noto in letteratura, diceva. In cosa è diverso, dunque, il vostro lavoro?
«Le principali novità del nostro lavoro sono due. La prima è che la nostra è un’analisi “tomografica”, che si basa cioè sull’introduzione di molti parametri che modificano le equazioni di Einstein a diverse età dell’universo. Per vincolarli, quindi, abbiamo dovuto utilizzare diverse osservazioni cosmologiche, in modo da ricostruire l’evoluzione delle strutture a varie età dell’universo.
La seconda?
«La seconda è una diretta conseguenza della prima. Questo approccio tomografico infatti richiede l’utilizzo di un elevato numero di parametri, cosa che rende l’analisi complicata dal punto di vista numerico. Non solo, questa complessità rischia anche di produrre vincoli poco stringenti sulla teoria. Per questa ragione, abbiamo anche introdotto alcune condizioni che questi parametri devono rispettare per far sì che l’interazione gravitazionale prodotta mantenga sempre un certo grado di validità fisica».
Può fare un esempio?
«Dalle osservazioni sappiamo che l’universo si espande, ad esempio. Ecco, questa è una delle condizioni che imponiamo. Oppure la presenza di interazioni che non violino alcune condizioni fondamentali del modello standard che descrive la fisica delle particelle. È grazie alla combinazione di questi due aspetti che abbiamo potuto effettuare un test della relatività generale a scale cosmologiche e a diverse età dell’universo».
C’erano stati altri tentativi in precedenza?
«Ci sono stati tentativi simili in precedenza, soprattutto all’interno di collaborazioni scientifiche legate alle osservazioni della radiazione cosmica di fondo (come Planck) e della distribuzione delle galassie (come Kids e Des). Tutti questi approcci però, per come erano stati pensati, riuscivano solo a segnalare se vi fosse un problema nella teoria di Einstein, e non riuscivano a indicare come modificarla. Cosa che invece il nostro approccio consente».
E cosa avete trovato?
«Abbiamo utilizzato questo approccio per ottenere predizioni teoriche che abbiamo poi confrontato con i dati forniti da vari esperimenti, fra cui Planck, Boss e Des. Il primo risultato che abbiamo ottenuto è stato verificare che il nostro approccio, nonostante la sua generalità, funziona. Abbiamo quindi confermato che può essere utilizzato e può fornirci informazioni su possibili deviazioni dalla teoria di Einstein in varie fasi dell’evoluzione dell’universo».
E per quanto riguarda la teoria della relatività generale?
«I nostri risultati indicano che la relatività generale è ancora compatibile con i dati sperimentali, ma che sono possibili anche delle deviazioni da essa. In questo senso, sarà fondamentale sfruttare la precisione delle osservazioni fatte dalle prossime missioni di osservazione di galassie per restringere ulteriormente i vincoli trovati nel nostro lavoro e giungere a una descrizione più precisa dell’interazione gravitazionale».
Possiamo ancora dire che la relatività generale è il modo migliore per descrivere la gravità e la fisica dell’universo, quindi?
«Al momento, la relatività generale resta la nostra migliore descrizione della gravità e un ingrediente fondamentale del nostro modello di universo. I problemi che hanno spinto a cercare possibili alternative sono però sempre presenti e sono sia teorici che osservativi.
Vuole spiegarli?
«Da un punto di vista teorico, il problema sta nel fatto che per giungere a una fase di espansione accelerata dell’universo – come quella che osserviamo oggi – è necessaria l’introduzione di una componente di energia oscura, componente di cui conosciamo le proprietà fondamentali, ma di cui non conosciamo l’origine».
Dal punto di vista osservativo, invece?
«Da un punto di vista osservativo, abbiamo invece delle indicazioni che il nostro modello cosmologico non riesce a spiegare tutti i dati in nostro possesso. Un esempio di questo è la misura della velocità di espansione dell’universo effettuate tramite le supernove: i dati recenti ci danno un valore incompatibile con quello misurato dalle osservazioni della radiazione cosmica di fondo. E mentre la prima misura è indipendente dal modello cosmologico, la seconda non lo è. Questa discrepanza può quindi essere dovuta ad un fallimento del nostro modello, in cui la relatività generale è un ingrediente fondamentale».
Quali tasselli mancano, in conclusione, per risolvere il problema?
«Senza dubbio dobbiamo migliorare la qualità delle osservazioni, in particolare per quanto riguarda la creazione di mappe di galassie. Questo darà un contributo fondamentale a questa linea di ricerca. Inoltre, dobbiamo effettuare nuove osservazioni sulle onde gravitazionali, visto che modifiche della teoria di Einstein hanno effetti significativi sulle nostre predizioni riguardo questo fenomeno. Il lavoro deve però procedere anche dal punto di vista teorico, cercando di formulare teorie che possano essere alternative valide alla relatività generale a livello cosmologico, senza però discostarsi da essa a livello locale, dove le nostre misure sono in perfetto accordo con la teoria di Einstein».
Per saperne di più: Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Imprints of cosmological tensions in reconstructed gravity”, di Levon Pogosian, Marco Raveri, Kazuya Koyama, Matteo Martinelli, Alessandra Silvestri, Gong-Bo Zhao, Jian Li, Simone Peirone e Alex Zucca
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