Gateway: a che punto è la stazione che orbiterà attorno alla Luna. Abbiamo chiesto a Sara Pastor, dell’Esa, di raccontarci tutto sul prossimo avamposto umano nello spazio. Galleggerà nello spazio a 380mila chilometri dalla Terra, sarà raggiungibile in cinque giorni di viaggio e orbiterà attorno alla Luna avvicinandosene fino a 3mila chilometri.
La stazione ribattezzata Gateway sarà il primo avamposto umano costruito oltre l’orbita terrestre. Anzitutto costituirà un tassello essenziale nel programma Artemis della Nasa, che nelle intenzioni degli Stati Uniti riporterà dal 2024 l’uomo sulla superficie lunare e, per la prima volta, una donna. Soprattutto, però, sarà una tappa cruciale nel futuro della scienza, della tecnologia e dell’esplorazione dello spazio profondo.
Per questo, sebbene suoni roboante, il Gateway potrebbe essere davvero l’ingresso in una nuova era della nostra evoluzione, meglio, il secondo gigantesco salto dell’Umanità dopo quello intravisto in un piccolo passo da Neil Armstrong il 20 luglio del 1969.
Come la Stazione spaziale internazionale, il programma Gateway sarà una cooperazione fra la Nasa, l’agenzia giapponese (la Jaxa), quella canadese (la Csa), la russa Roscosmos e l’Agenzia spaziale europea. Proprio a chi, per conto di quest’ultima, coordina il programma, ci siamo rivolti per saperne di più.
Classe 1973, piemontese per origini e ingegnere per vocazione, Sara Pastor lavora alle infrastrutture orbitanti dalla fine degli anni ’90 (allora per Thales Alenia Space). All’Esa dal 2003, oggi ne è la Exploration System Infrastructure Lead. Detto altrimenti, colei che prepara il nostro prossimo balzo evolutivo. O se non altro, il suo trampolino.
Qual è esattamente il suo lavoro all’Agenzia spaziale europea?
“Con un team di ingegneri molto giovani, lavoro su due progetti: il primo riguarda la Iss, per cui mi occupo della progettazione e dell’acquisizione dei ricambi, così come delle migliorie del modulo Columbus, il laboratorio scientifico europeo di bordo. Lavoriamo sui sistemi del modulo, non sui payload”.
Cioè sull’infrastruttura?
“Esatto, non sugli esperimenti. Seguo anche la parte di supporto ingegneristico alle operazioni in orbita, perché durante la vita operativa della stazione non mancano le anomalie e bisogna risolverle, occorre cambiare i pezzi e migliorare via via i software di bordo”.
Il secondo progetto?
“Lavoro alla definizione del Gateway, la base orbitante fino a pochi mesi fa nota come ‘Lunar Orbital Platform-Gateway’. Con la Nasa stiamo concentrandoci sull’architettura dell’intera stazione. Per ciò che riguarda i contributi specifici dell’Agenzia spaziale europea, stiamo invece progettando l’International Habitat, che chiamiamo “I-Hab”, il modulo abitativo pressurizzato. Concluderemo a breve la fase di studio, quindi valuteremo le proposte di realizzazione dei moduli per sottoporle all’approvazione dei 22 stati membri”.
Qualche data?
“Nel 2022 è previsto il lancio del sistema propulsivo e di alimentazione elettrica, il Power and Propulsion Element, che controllerà l’assetto e l’orbit transfer della stazione. Nel 2023 la Nasa prevede di mandare in orbita anche il suo Habitation and Logistics Outpost, un modulo con funzioni abitative minimali e il punto di attracco per veicoli come il lander lunare e i moduli di rifornimento. Fra le altre funzioni, ospiterà gli astronauti che dovrebbero scendere sul suolo selenico già l’anno successivo. L’aggiunta del nostro I-Hab, al momento, è prevista entro la fine del 2025”.
Quanto sarà grande il Gateway e dove orbiterà?
“Nella sua configurazione completa – che prevede anche lo Us Habitation Module e un Airlock, cioè una camera di compensazione per le attività umane extraveicolari -, il volume pressurizzato della stazione sarà di 125 metri cubi, ben più piccolo di quello della Iss. Il Gateway avrà una massa complessiva di circa 40 tonnellate, disterà 380mila chilometri dalla Terra e sarà raggiungibile in cinque giorni. Sarà dotato di un alto grado di autonomia, perché si prevede venga abitato da un equipaggio di quattro astronauti per permanenze al massimo di 90 giorni all’anno.
La discussione sull’orbita è aperta: adesso ne stiamo considerando una polare fortemente ellittica, che nel punto più vicino alla Luna, il cosiddetto periselenio, le sarà a circa 3mila chilometri, mentre all’aposelenio raggiungerà i 70mila. Per percorrerla, il Gateway impiegherà una settimana”.
Come sta collaborando l’Esa allo sviluppo della stazione?
“Abbiamo lavorato a stretto contatto con Nasa, Jaxa, Csa e Roscosmos per definire l’intera architettura del Gateway, i requisiti e le funzioni della nuova stazione orbitante. Nella fase successiva sono stati determinati i vari contributi delle agenzie e l’Esa, sulla base delle sue capacità industriali e delle indicazioni degli stati membri, ha proposto di contribuire al progetto con l’I-Hab e con un pacchetto di funzioni noto come Esprit, che conterrà il communication system con la Luna e il supporto a quello della Nasa. Il modulo ospiterà anche un sistema di taniche per lo stoccaggio del propellente e per il refueling del Power Propultion Element”.
Nel programma Artemis l’Esa avrà un ruolo fondamentale, giusto?
“Certo. Vogliamo partecipare anche alla fase di allunaggio, prima con rover robotizzati, poi con i nostri astronauti. Sarà proprio il Gateway a fare da base per le discese sulla superficie lunare. In più, un ambito che per l’Esa costituirà sia un contributo che un beneficio sarà quello scientifico: l’agenzia considera il Gateway come un ambiente unico in cui effettuare sperimentazioni, dove studiare, per esempio, il tipo di radiazioni a cui saranno esposti gli astronauti e la futura esplorazione del cosmo”.
A proposito di radiazioni, come le state affrontando dal punto di vista progettuale?
“Come detto, contrariamente alla Iss il Gateway non sarà abitato in modo permanente. Sulla stazione gli astronauti rimarranno per un periodo che andrà dagli undici ai novanta giorni, quando saremo più in là nelle missioni. Per le permanenze brevi, il problema dell’esposizione alle radiazioni non è così rilevante. Per le missioni successive, che a loro volta forniranno indicazioni preziose, stiamo pensando a protezioni di vario tipo: da specifiche manovre operative, che attraverso un particolare orientamento del Gateway potranno sfruttarne la massa strutturale come schermo, fino a soluzioni di design permanente, come bag di acqua, che sembra siano in grado di offrire un livello di protezione alto. Gli studi sono all’inizio”.
L’Italia ha un ruolo di prestigio nella progettazione e nella realizzazione di moduli spaziali abitabili. A cosa si deve questa eccellenza?
“Credo tutto sia nato quando, alla fine degli anni ’90, l’allora Alenia brevettò una forma di saldatura ad alta tecnologia, la cosiddetta stir welding, rivelatasi l’arma vincente nello sviluppo dei moduli pressurizzati successivi (una serie numerosa e non ancora conclusa come dimostra il Gateway). In quel periodo, il Nodo 1 della Iss sviluppato dalla Nasa aveva un leakeage – una perdita – normale, direi fisiologica, eppure ben più alta di quella dei moduli sviluppati in Italia. Su questa eccellenza, si sono sviluppate capacità oggi riconosciute a livello mondiale”.
E lei com’è arrivata a progettare basi spaziali?
“Mi sono laureata nel 1998 in Ingegneria aerospaziale al Politecnico di Torino, con una specializzazione in sistemi aeronautici. La mia carriera è iniziata alla Thales Alenia Space, dove per circa quattro anni ho lavorato sui moduli pressurizzati della Iss, il Nodo 2, il 3 e la famosa Cupola, la finestra resa celebre dalle foto degli astronauti (che ha compiuto 10 anni la settimana scorsa, nda).
In quel periodo ho anche iniziato a lavorare sulla preparazione della fase operativa del Columbus, fino al 2003, quando mi sono trasferita all’Estec, il Centro europeo per la ricerca e tecnologia spaziale dell’Esa, a Noordwijk, in Olanda. Ho iniziato da contractor, dando supporto alle missioni di breve durata della Sojuz. Dopo il lancio del Columbus, nel febbraio 2008, sono entrata nello staff dell’Agenzia”.
Perché oggi lo spazio è un ambito lavorativo sempre più importante?
“Temo che la risposta sia tanto semplice da suonare banale: è fondamentale capire da dove veniamo e cosa ci circonda. Significa esplorare nuovi mondi, indagare la presenza di vita su altri pianeti e, contemporaneamente, curarci della Terra, proteggendola da minacce esterne, ma anche interne.
È lo stesso motivo per cui sono stati esplorati orizzonti sconosciuti come il Far West, gli oceani, i poli terrestri: come società, ma prima ancora come specie, dobbiamo muoverci ed esplorare sempre. Per la stessa ragione dobbiamo andare sulla Luna, conoscerla e scoprire, per esempio, come si possa sopravvivere nella sua orbita per giorni. Solo così potremo spingerci verso Marte superando tutte le criticità di un viaggio del genere: l’impossibilità di essere supportati da Terra, lo sfruttamento di risorse in-situ.
Nulla di tutto questo sarebbe possibile senza accumulare esperienze e professionalità nel settore. Siamo chiamati a capire quali saranno i problemi del futuro, anzi, siamo invitati ad anticiparli per risolverli prima che si presentino”.
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