Il primo ologramma realizzato grazie all’entanglement quantistico di fotoni. Un team di fisici dell’Università di Glasgow è riuscito per la prima volta a codificare un ologramma servendosi delle proprietà uniche dell’entanglement quantistico. Lo studio su Nature Physics
Nel mondo della fisica è stato appena raggiunto un altro traguardo: per la prima volta, infatti, un team dell’Università di Glasgow, in Scozia, è riuscito a superare i limiti dell’olografia convenzionale e a codificare con successo le informazioni contenute all’interno di un ologramma. E lo ha fatto escogitando una nuova tecnica basata sull’entanglement, e più precisamente sui fotoni entangled. Appena descritto sulle pagine della rivista Nature Physics, questo innovativo metodo potrebbe portare a un notevole miglioramento dell’utilizzo dell’olografia, come per esempio nell’imaging medico e nella comunicazione quantistica. “L’olografia classica ha dei limiti, come l’interferenza di sorgenti luminose e una forte sensibilità alle instabilità meccaniche”, racconta Hugo Defienne, tra gli autori dello studio. “Il processo che abbiamo sviluppato supera questi limiti e introduce l’olografia nel mondo quantistico. L’uso di fotoni entangled offre quindi nuovi modi per creare ologrammi più nitidi e dettagliati”.
Gli ologrammi, ricordiamo, li abbiamo sotto gli occhi ogni giorno: in parole semplici, sono figure bidimensionali che codificano un’immagine tridimensionale e vengono usate per motivi di sicurezza su banconote, carte di credito e passaporti, ma anche per l’imaging medico e l’archiviazione di dati. Solitamente, l’olografia convenzionale crea rendering bidimensionali di oggetti tridimensionali con un raggio di luce laser diviso in due percorsi: il primo raggio viene inviato verso l’oggetto da riprodurre, mentre il secondo viene direttamente inviato a una lastra olografica. Con un gioco di specchi, il raggio che arriva dalla sorgente interferisce con quello riflesso dell’oggetto e sulla lastra si creano delle linee, dette frange di interferenza, che contengono l’informazione.Anche nel nuovo studio i fisici sono partiti da un fascio di luce laser diviso in due percorsi, ma, questa volta, i raggi non vengono mai riuniti e sfruttano le proprietà uniche dell’entanglement quantistico, un fenomeno che si verifica quando due di particelle, i fotoni, sono intrinsecamente connesse tra loro in modo tale che a ogni alterazione di stato della prima corrisponde un cambiamento istantaneo dell’altra, indipendentemente dalla distanza. Un fenomeno, ricordiamo, su cui si basa la comunicazione quantistica. Ed è sostanzialmente quello che hanno fatto i fisici: attraverso lastre di uno speciale cristallo hanno diviso in due un fascio di luce laser blu-viola e creato fotoni entangled. Un raggio di fotoni, come avviene per l’olografia convenzionale, è stato diretto a un oggetto bersaglio. L’altro raggio, invece, è stato diretto verso un modulatore di luce spaziale, un dispositivo ottico che può rallentare la velocità della luce che lo attraversa, e ha infatti rallentato i fotoni prima che fossero raccolti da una seconda telecamera. Questo leggero rallentamento ha così alterato la fase dei fotoni, rispetto a quelli del raggio dell’oggetto.A differenza dell’olografia convenzionale, in cui a questo punto i due raggi vengono sovrapposti l’uno all’altro e il grado di interferenza di fase tra loro è usato per generare un ologramma sulla fotocamera, i due raggi di fotoni non si sovrappongono mai: l’ologramma viene creato misurando le correlazioni tra le posizioni dei fotoni entangled e utilizzando due fotocamere digitali separate. Infine, vengono combinati i quattro ologrammi risultanti per generare un’immagine di fase ad alta risoluzione. Il team è così riuscito a generare ologrammi del logo dell’Università di Glasgow, una faccina sorridente, oltre a oggetti tridimensionali, come una striscia di nastro scozzese e una piuma.
La nuova tecnica, inoltre, avrebbe il potenziale per migliorare l’imaging medico. “Tra le diverse applicazioni ci potrebbe essere l’imaging medico, dove l’olografia è già utilizzata in microscopia per esaminare i dettagli di campioni che sono spesso quasi trasparenti”, conclude Defienne. “Il nostro processo consente la creazione di immagini ad alta risoluzione e con un rumore inferiore, che potrebbero aiutare a rivelare dettagli più fini delle cellule e aiutarci a saperne di più su come funziona la biologia a livello cellulare”.
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