Ora il robot impara da solo: sa cosa fare senza che nessuno glielo abbia detto. Alla Columbia University hanno progettato la prima macchina che si percepisce nello spazio e capisce cosa fare senza alcun aiuto né informazione ma costruendo da sola un embrione di autocoscienza.
CHISSÀ se davvero nel giro di cinquant’anni tutti i robot, le macchine con cui interagiamo quotidianamente, avranno preso coscienza di se stesse. Saremmo davvero agli albori della cosiddetta singolarità, quel momento in cui le potenzialità delle tecnologie supereranno le nostre capacità di previsione e programmazione delle loro conseguenze. Manca tuttavia molta strada. Promettono ora di accorciarla gli scienziati della Columbia University di New York che hanno in effetti compiuto un passo in avanti nell’ambito dei cosiddetti “self-aware robot”. Cioè delle macchine in grado di avere un qualche grado di percezione di sé.
Un gruppo di ricercatori del Creative Machine lab, capitanato dal 52enne Hod Lipson, ha infatti ideato un braccio robotico in grado di capire da solo i compiti da svolgere e, soprattutto, di ripararsi da se in caso di malfunzionamento. Individuando le parti danneggiate. Il docente ha d’altronde paragonato la sua creatura a un neonato che debba adattarsi al contesto e imparare, tassello dopo tassello, cosa fare e come muoversi. Secondo il team è la prima volta che un robot fisico (ovviamente interfacciandosi con un “cervello” informatico) ha mostrato in modo così evidente e significativo la capacità di “immaginarsi”, di scovare i propri obiettivi e di iniziare a lavorare. Affrancandosi, almeno in parte, da processi di apprendimento lunghi, laboriosi e ripetitivi “imboccati” dagli esseri umani.
Lipson, che ha pubblicato l’indagine sulla rivista specializzata Science Robotics e da anni indaga gli sviluppi degli androidi autocoscienti, ha spiegato che si tratta di un passaggio pioneristico: “Mentre l’abilità del nostro robot di avere coscienza di sé è evidentemente molto grossolana se comparata a quella degli esseri umani, crediamo però che questa strada sia ormai aperta”. Insomma, non si tratta ancora di vedere le macchine “ragionare” in modo raffinato, immaginandosi magari altrove quando sono in un certo posto o evitando gli errori semplicemente ragionando sulle cose prima di farle – come fanno gli esseri umani –, ma certo di un primo salto verso un processo di apprendimento meno dispendioso in termini di tempo, simulazioni necessarie ed energie.
•L’autoapprendimento delle macchine
Il braccio creato dagli ingegneri della Columbia si è dimostrato dunque in grado di imparare da zero, senza alcuna informazione precaricata che fosse di fisica, geometria o dinamica dei motori. Dopo poco più di un giorno di pratica intensiva la macchina ha imparato ad adattarsi a diversi compiti, anche inediti, e a riparare eventuali danni su se stessa. “Se vogliamo che i robot siano indipendenti e si adattino rapidamente a scenari che non potevano essere immaginati dai loro creatori è essenziale che imparino a simulare se stessi” ha aggiunto il docente di ingegneria meccanica (qui un suo intervento a un Ted di cinque anni fa). Con tutti i rischi del caso.
•Il braccio robotico
Per lo studio Lipson e il suo collaboratore, lo studente Robert Kwiatkowski, hanno usato un braccio a quattro gradi di libertà. Se all’inizio lo strumento si muoveva in modo casuale mettendo insieme un migliaio di diverse traiettorie, ciascuna composta da un centinaio di punti, tramite il deep learning – cioè l’insieme di metodi informatici attraverso i quali vengono simulati i processi di apprendimento del cervello biologico grazie a sistemi artificiali come le reti neurali – ha creato un modello di sé. Prima impreciso, visto che il robot non sapeva ancora cosa fosse o come fossero costituiti i suoi pezzi. Tuttavia, con una velocità sorprendente, dopo appena 35 ore di addestramento il modello di intelligenza artificiale si è in qualche modo sovrapposto alla sua controparte fisica, guidandola. Iniziando cioè a svolgere compiti come prendere e posare oggetti secondo uno schema prestabilito attraverso il quale ha calibrato ancora meglio dimensioni, distanze e proporzioni.
Tutto da solo. Finché non è riuscito anche in incarichi più complessi, come recuperare un oggetto al suolo e infilarlo in un contenitore con un tasso di successo del 100%. Una percentuale che è scesa al 44% in caso di compiti non ricorrenti, nei quali cioè occorreva improvvisare la soluzione. “Ma è come prendere in mano un bicchiere d’acqua a occhi chiusi, anche per gli esseri umani alcune richieste sarebbero complesse” ha spiegato Kwiatkowski. Se questo non è infondere vita alla materia, poco ci manca.
•Il danno simulato
Il braccio robotico è stato poi messo alla prova con altre incombenze, come scrivere del testo usando un evidenziatore oppure farsi una sorta di autoanalisi. Questo è stato in effetti uno dei punti più interessanti dell’esperimento: i ricercatori hanno stampato in 3D una finta parte deformata del dispositivo, proprio per simulare un danno. Bene, il robot è stato in grado di individuare l’anomalia e adattare il proprio comportamento, per così dire, alla mutata situazione. Continuando a svolgere i compiti assegnati senza significativi cali di performance.
•La perdita di controllo
“Filosofi, psicologi e neuroscienziati si sono interrogati per millenni sulla natura dell’autocoscienza – ha aggiunto Lipson – ma hanno fatto progressi molto limitati. Abbiamo mascherato la nostra mancanza di comprensione con termini soggettivi come ‘la ragnatela della realtà’ ma adesso i robot ci costringono a tradurre queste vaga nozioni in algoritmi e meccanismi concreti”. L’aspetto inquietante sta ovviamente nella perdita di controllo, come fin troppi film di fantascienza hanno prospettato negli anni: “L’autocoscienza condurrà a sistemi adattivi e resilienti – concludono gli esperti con un mix di entusiasmo e prudenza – ma implica anche una certa quota di perdita di controllo. Una tecnologia molto potente che andrebbe maneggiata con cura”.
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