L’antineutrino ed il neutrino, massa nulla e velocità maggiore della luce?

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Il neutrino è l’oggetto più piccolo con il quale l’uomo sia mai venuto a contatto. Esso è talmente piccolo che non si è ancora riusciti a misurare con certezza la sua massa, la quale potrebbe anche essere nulla. Ciò di cui invece si è certi è che si tratta di una “particella” sfuggente e misteriosa che si libera nel corso di alcune reazioni nucleari che avvengono nel Sole (e nelle altre stelle), all’interno del nostro stesso pianeta e nei reattori nucleari costruiti dall’uomo.Il neutrino attraversa la materia con estrema facilità e quindi anche il nostro corpo è continuamente perforato da miliardi di questi minuscoli proiettili che tuttavia non gli arrecano alcun danno. Diversamente da quanto facciamo per radiazioni di altra natura che ci piovono addosso, non abbiamo quindi alcun bisogno di proteggerci dai neutrini, ma in verità non sapremmo nemmeno come farlo visto che per essi la materia è quasi del tutto trasparente.

Come abbiamo detto i neutrini hanno pochissima propensione ad interagire con la materia perché sono molto piccoli, ma anche perché viaggiano a velocità elevatissime (addirittura alla velocità della luce se fossero senza massa) e pertanto nel loro cammino rimangono vicino ai nuclei atomici coi quali potrebbero eventualmente interagire per un tempo troppo breve per consentire una reazione. Per avere un qualche effetto, i neutrini nel loro movimento dovrebbero centrare in pieno il nucleo di un atomo, ma si tratta di un evento talmente raro che si è calcolato che queste strane particelle sarebbero in grado di attraversare un muro dello spessore di alcuni anni luce senza trovare praticamente alcun ostacolo. Eppure lo spazio pullula di neutrini i quali, se avessero una massa anche minima, rappresenterebbero il costituente principale dell’Universo.

  1. IL RISPETTO DELLE LEGGI FISICHE

I neutrini, come spesso succede nella ricerca scientifica, vennero scoperti per caso. Alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso si era notato che durante una determinata trasformazione radioattiva, che avveniva con emissione di elettroni (il cosiddetto decadimento β), una parte dell’energia in gioco scompariva. Ora bisogna sapere che vi sono alcune leggi fisiche che gli scienziati considerano inviolabili. Fra queste sono annoverati i cosiddetti “principi di conservazione” uno dei quali afferma che in ogni trasformazione della materia l’energia complessiva non cambia, ovvero l’energia all’inizio del processo uguaglia quella finale. (Per essere precisi non dovremmo dire energia, ma massa-energia, in quanto le due entità sono fra loro intercambiabili nel senso che la massa può tramutarsi in energia e viceversa come afferma la celeberrima equazione di Einstein: E=m·c2 dove E è l’energia e m la massa; c2 è la velocità della luce al quadrato, un numero elevatissimo e fisso che spiega il motivo per il quale basta che poca materia si trasformi per ottenere grandi quantità di energia.) Queste leggi di conservazione sono risultate utilissime perché hanno consentito l’interpretazione di fatti sperimentali riguardanti i fenomeni naturali nel modo più logico e semplice possibile.

Le leggi di conservazione valgono anche per i processi che interessano le particelle elementari. Quando ad esempio un elettrone e un positone (elettrone con carica positiva invece che negativa) si annichilano reciprocamente, cioè scompaiono per essere venuti a contatto diretto, l’energia che appare al loro posto, sotto forma di raggi gamma, è esattamente uguale all’energia che era presente, sotto forma di massa delle due particelle reagenti, sommata all’energia cinetica posseduta dalle stesse durante la fase di avvicinamento. La stessa cosa avviene quando un nucleo atomico subisce la disintegrazione radioattiva, anziché con emissione di un elettrone, con espulsione di una particella  (il nucleo dell’atomo di elio): la massa del nucleo residuo, più la massa della particella alfa, più ancora la massa corrispondente all’energia cinetica delle particelle che si allontanano dal luogo in cui è avvenuta la reazione è uguale a quella posseduta dal nucleo originario. A volte l’energia delle particelle che volano via dal luogo della reazione è inferiore a quella prevista; in tal caso si assiste all’emissione di uno o due fotoni che pareggiano il conto energetico.

La situazione apparve diversa quando si andò ad analizzare il decadimento radioattivo beta, cioè il caso in cui il nucleo atomico emette un elettrone e si trasforma nel nucleo di una nuova specie atomica. Per esempio, quando il C14, il famoso carbonio radioattivo, emette un elettrone e diventa N14 (azoto 14 non radioattivo) il bilancio energetico non quadra. Si scoprì che la velocità con cui si allontanava l’elettrone espulso dal nucleo dell’elemento radioattivo era troppo bassa e pertanto l’energia cinetica posseduta da quella particella in movimento non era sufficiente per controbilanciare la perdita di massa conseguente alla reazione. Sembrava, in altre parole, che durante il decadimento beta l’energia non venisse conservata e vi fu infatti chi propose, per risolvere il problema in modo sbrigativo, di abbandonare la legge della conservazione dell’energia, almeno per quanto riguardava il caso specifico. La maggior parte dei fisici, però, non accettò questa soluzione: quando una legge non è applicabile ad un caso particolare, prima di rinunciare ad essa, bisogna tentare in tutti i modi di farla rientrare in gioco, anche a costo di escogitare qualche cosa di stravagante.

  1. LA SOLUZIONE NEUTRINO

Nel 1930, il fisico austriaco Wolfgang Pauli, per risolvere questo problema, ipotizzò l’esistenza di una particella che avrebbe dovuto comparire nel momento stesso in cui dal nucleo radioattivo usciva l’elettrone: questa nuova particella avrebbe contenuto l’energia mancante al pareggio del bilancio. Per soddisfare le esigenze per le quali era stata proposta, e per spiegare il fatto che fino ad allora nessuno era riuscito ad individuarla, la nuova particella avrebbe dovuto possedere proprietà improbabili come quella di non avere massa (o quasi), di non interagire con la materia ordinaria (o quasi) e di essere elettricamente neutra. Indubbiamente si trattava di una particella con caratteristiche strane inventata all’unico scopo di salvare le apparenze, una specie di stampella, come fece notare qualcuno, costruita per sorreggere il principio di conservazione dell’energia. Certo è che se per salvare una legge fondamentale della fisica si doveva ricorrere ad una particella fantasma, allora tanto valeva non salvarla. L’idea comunque piaceva.

Nel 1934 Fermi affrontò il problema della nuova particella, che egli chiamò neutrino, cioè “piccolo neutrone” costruendo intorno ad essa una teoria che prevedeva la presenza di una forza capace di trasformare, all’interno del nucleo atomico, protoni in neutroni e viceversa. Quando un neutrone si fosse trasformato in protone vi sarebbe stata l’emissione di un elettrone e di un neutrino (anzi, come si vedrà in seguito, di un antineutrino) mentre nella trasformazione di un protone in un neutrone si sarebbe verificata l’emissione di un positone (qualcuno lo chiama positrone ma la “r” sembra di troppo perché il termine deriva da positivo) e di un neutrino vero e proprio. Neutrino ed antineutrino avrebbero avuto la funzione di garantire il rispetto dei principi di conservazione fondamentali della fisica.

Le conclusioni cui giunse Fermi riguardo alle caratteristiche che il neutrino avrebbe dovuto possedere erano veramente sconfortanti per uno che avesse voluto cimentarsi nella sua individuazione diretta. Tuttavia vi fu un giovane ricercatore di nome Frederick (Fred) Reines il quale, alle affermazioni di Fermi, secondo cui la probabilità di individuare una simile particella con la tecnologia disponibile a quel tempo era nulla, prese quella previsione come una sfida.

Frattanto, in attesa della individuazione della particella fantasma, venivano scoperte altre violazioni alle leggi di conservazione che avrebbero potuto essere sanate con l’introduzione del neutrino. Queste erano la legge della conservazione della quantità di moto, quella della conservazione del momento angolare e infine la legge della conservazione del cosiddetto numero leptonico. Vediamo di cosa si tratta.

Ogni particella elementare tende a decadere in una più leggera; una particella invece è stabile quando non esiste una particella più leggera nella quale possa trasformarsi. Così, ad esempio, il neutrone, lasciato a sé stesso, dopo una quindicina di minuti spontaneamente si disintegra espellendo un elettrone. Ciò che rimane è un protone (particella più leggera del neutrone) che si muove nella direzione opposta a quella dell’elettrone espulso. In teoria, la quantità di moto dell’elettrone, che è data dalla sua massa (piccola) per la sua velocità (grande), dovrebbe essere uguale alla quantità di moto di rinculo del protone, che è data sempre dalla sua massa (maggiore di quella dell’elettrone) per la sua velocità (minore di quella dell’elettrone). Ma non è così: la quantità di moto dell’elettrone in genere è più piccola di quella prevista e il protone, inoltre, non si muove, come dovrebbe, nella direzione esattamente opposta a quella dell’elettrone. Ammettendo la presenza di un neutrino il fenomeno verrebbe coerentemente spiegato.

Un altro problema da risolvere era quello relativo alla mancata conservazione del momento angolare. Il momento angolare intrinseco, detto anche spin, è una grandezza tipica delle particelle subatomiche e può essere rappresentato come effetto del moto di rotazione della particella su sé stessa. Ora una particella può girare su sé stessa in senso orario o in senso antiorario; se gira in un senso si dice, ad esempio, che ha spin +½ se gira nell’altro senso si dice che ha spin -½. Il neutrone può avere spin +½ o -½, ma quando si disintegra, il protone e l’elettrone che ne derivano, possono avere anch’essi spin +½ o -½. Lo spin totale di protone ed elettrone presi insieme, a seconda dei segni da essi posseduti, sarà pertanto +1, -1 o 0, ma mai +½ o -½ come era all’inizio. Ciò significa che, se non si ammette la presenza di qualcos’altro, viene infranta la legge della conservazione del momento angolare. Ammettendo la presenza del neutrino i conti invece tornerebbero.

Vi è infine la mancata osservanza della legge di conservazione del numero leptonico. E’ questa una carica specifica che viene assegnata alle particelle leggere (dette leptoni, dal greco leptos = tenue, sottile), ossia ad elettroni, muoni (o leptoni mu), tauoni (o leptoni tau) e neutrini. Il valore del numero leptonico è +1 per la particella e -1 per la corrispondente antiparticella. Quando ad esempio il neutrone decade in protone ed elettrone, se non ci fosse un antineutrino a bilanciare il valore +1 dell’elettrone, il numero leptonico, che prima della trasformazione era ovviamente zero (in quanto il neutrone non è un leptone), non si sarebbe conservato. Il valore di -1, assegnato alla nuova particella per fare tornare i conti, spiega anche la ragione per la quale il neutrino elettronico, emesso in seguito al decadimento del neutrone, è in realtà un antineutrino.

La presenza di una particella sconosciuta ipotizzata all’unico scopo di salvare una legge di conservazione forse era una pretesa eccessiva, ma una particella che riesce a spiegare con la sua presenza ben quattro leggi fisiche fondamentali sembrava qualche cosa di più verosimile e di conseguenza importantissimo diventava a quel punto operare un tentativo per la sua individuazione.

  1. LA SCOPERTA DELL’ANTINEUTRINO

I fisici si misero quindi alla ricerca del neutrino convinti ormai della sua esistenza. In generale, affinché sia possibile localizzare una particella è indispensabile che la particella da individuare interagisca con qualcos’altro; inoltre occorre anche che l’interazione una volta avvenuta sia riferibile, senza ombra di dubbio, alla particella in oggetto e non a particelle o eventi di altro tipo.

Nel 1953 Fred Reines e il suo collaboratore Clyde Cowan, sfidando il parere contrario di Fermi, montarono un rivelatore di grandi dimensioni, progettato appositamente per lo scopo, nei pressi di un reattore nucleare a fissione, in funzione a Savannah River nel South Carolina, che rappresentava una ricca sorgente di neutrini. Come abbiamo visto in precedenza i singoli neutrini attraversano la materia senza praticamente incontrare ostacoli, però, se queste minuscole particelle fossero tante e l’osservazione venisse protratta per un periodo di tempo molto lungo, potrebbe darsi che almeno una di esse venisse catturata e identificata consentendo la verifica della sua effettiva esistenza. E’ un po’ quello che avviene nel gioco del Superenalotto dove la probabilità che un singolo giocatore possa vincere è praticamente nulla, però fra milioni di giocatori che puntano tutte le settimane sulla sestina ogni due o tre mesi accade che uno indovini quella vincente. Così fra tanti neutrini vi erano sempre alcuni che intercettavano i nuclei degli atomi presenti nel rivelatore dando prova della loro presenza.

In un reattore nucleare a fissione avviene la scissione di nuclei di uranio che si dividono in due frammenti più piccoli mettendo in libertà alcuni neutroni. Questi neutroni liberi, come abbiamo già visto, decadono spontaneamente in protoni e nello stesso tempo emettono un numero cospicuo di antineutrini. Se ora gli antineutrini che transitano nel rivelatore colpissero i protoni presenti in esso questi espellerebbero positoni e si trasformerebbero in neutroni. Il positone appena formato inevitabilmente incontrerebbe nelle vicinanze un elettrone producendo il reciproco annichilamento con formazione di raggi gamma di energia equivalente a quella della massa delle due particelle scomparse. Il rilevamento di questa radiazione rappresenterebbe un primo segnale dell’avvenuta reazione. Un secondo segnale verrebbe dalla cattura del neutrone appena formato da parte del nucleo di un atomo particolare il quale, nel momento stesso in cui assorbe il neutrone, emette alcuni fotoni di precisa energia. Questi due segnali successivi sono tipici di queste specifiche reazioni e di nessun’altra.

Il rivelatore costruito dai due ricercatori americani nei pressi del reattore a fissione di Savannah River conteneva grandi quantità d’acqua le cui molecole (H2O) sono ricche di protoni (i nuclei degli atomi di idrogeno) e nella quale era sciolto del cloruro di cadmio che aveva il compito di catturare i neutroni. All’esterno, ovviamente, vi erano apparecchi capaci di rilevare la presenza dei fotoni gamma e di determinare le loro energie e la direzione del loro movimento. Nel 1956, ventisei anni dopo che Pauli escogitò l’espediente del neutrino per difendere una delle leggi fondamentali della fisica, venne annunciato l’avvistamento del primo antineutrino.

In seguito risultò che la corrispondenza fra osservazione e teoria era stata in realtà un colpo di fortuna in quanto le predizioni teoriche su cui si erano basati gli sperimentatori erano, seppur leggermente, sbagliate. Tuttavia altri scienziati successivamente si cimentarono nello stesso esperimento, modificando in parte le apparecchiature e confermando l’osservazione delle particelle fantasma.

  1. LA SCOPERTA DEL NEUTRINO

Se esisteva l’antineutrino, a maggior ragione doveva esistere il neutrino. Ma come fare per rilevarlo?

Gli antineutrini, come abbiamo visto, si formano all’interno dei reattori nucleari di fissione dove avviene la trasformazione dei neutroni in protoni; a rigor di logica i neutrini dovrebbero formarsi a seguito della trasformazione contraria, cioè di protoni in neutroni. Questa trasformazione avviene nelle reazioni di fusione nucleare dove l’idrogeno si trasforma in elio, ma a tutt’oggi non esistono reattori di fusione funzionanti che ci possano fornire flussi di neutrini.

Nelle reazioni di fusione nucleare quattro nuclei di idrogeno, ossia quattro protoni, vengono convertiti in un nucleo di elio formato da due protoni e due neutroni. Nel processo si formano anche due positoni e due neutrini. Questo tipo di reazione avviene in modo incontrollato nell’esplosione della bomba a idrogeno alla quale è prudente tuttavia non avvicinarsi troppo, nemmeno per motivi di studio, ma la stessa reazione avviene anche nel Sole che può essere considerato un’enorme bomba H in continua esplosione posta però a notevole distanza da noi. Il Sole emette una quantità incredibile di neutrini parte dei quali raggiunge la Terra.

Nel nucleo del Sole, dove avviene la fusione, i protoni si convertono in neutroni emettendo positoni e neutrini i quali attraversano l’astro viaggiando a velocità prossime a quelle della luce senza incontrare ostacoli e quindi in pochi minuti giungono fino a noi portando con sé informazioni relative alle condizioni esistenti nel centro della nostra fonte di luce e calore. Anche la stessa luce, in verità, potrebbe fornirci analoghe informazioni, ma i fotoni che si formano nel centro del Sole devono aprirsi a fatica la via per portarsi dal luogo in cui sono prodotti alla superficie e quindi procedere verso Terra. Durante questo percorso tortuoso e accidentato subiscono delle modificazioni dovute alle loro interazioni con le particelle materiali sì che giungono a noi privi di quelle informazioni dirette che ci consentirebbero di conoscere la costituzione interna del Sole. Per i neutrini invece il discorso è diverso perché questi corpuscoli non interagiscono con la materia e quindi rappresentano dei messaggeri eccezionali e veloci delle condizioni che regnano all’interno del Sole. Scoprire i neutrini solari vuol dire quindi non solo provarne l’esistenza, ma anche indagare sui fenomeni che avvengono all’interno del nostro prezioso astro del giorno.

Anche in questo caso, per evidenziare i neutrini, dovremmo servirci di un’interazione fra particelle che è il contrario di quella usata per scoprire gli antineutrini, per ottenere i quali, come si ricorderà, fu necessario fare in modo che questi colpissero i protoni con produzione di neutroni e positoni. Per scoprire i neutrini, ora sarà necessario fare in modo che questi colpiscano i neutroni per produrre protoni ed elettroni. Se quindi per scoprire gli antineutrini fu necessario predisporre un bersaglio ricco di protoni come è quello formato da molecole d’acqua, per evidenziare i neutrini sarà necessario scegliere un bersaglio ricco di neutroni.

Il metodo per rivelare la presenza dei neutrini fu suggerito da un fisico italiano dalla vita romanzesca segnata da scelte coraggiose e anticonformiste. Il personaggio risponde al nome di Bruno Pontecorvo morto in Russia nel 1993 all’età di ottanta anni dopo lunga malattia (soffrì per più di dieci anni del morbo di Parkinson). Pontecorvo era uno dei mitici “ragazzi di via Panisperna”, il più giovane del gruppo di cui facevano parte Fermi, Amaldi, Majorana, D’Agostino, Segrè e Rasetti (l’unico ancora vivente con i suoi cent’anni compiuti da poco) e partecipò a molte ricerche di fisica riguardanti soprattutto le particelle elementari. Nel 1936 si trasferì a Parigi dove lavorò all’Istituto del radio con Frederick Joliot-Curie e lì ebbe modo di frequentare gli uomini dell’antifascismo italiano fra i quali vi era Emilio Sereni, suo cugino, dirigente del partito comunista. Dopo una serie di altre esperienze all’estero, tornato in Italia, nel 1950 decise improvvisamente e misteriosamente di fuggire nella Unione Sovietica dove avrebbe vissuto, se si eccettuano brevi visite alla sua terra natale, ininterrottamente fino alla morte. Il motivo che spinse lo scienziato italiano, di religione ebraica, a fuggire al di là della cortina di ferro, non aveva nulla a che fare con lo spionaggio come in un primo tempo molti avevano temuto, ma fu, per sua stessa ammissione, una scelta di campo dettata da una fede incrollabile nell’ideale comunista che egli, insieme con la moglie Marianne, di nazionalità svedese, aveva abbracciato con convinzione. La sua fuga tuttavia mise in allarme tutto il mondo occidentale, che temeva il trasferimento nei paesi comunisti di importanti segreti atomici.

Bruno Pontecorvo, il cui fratello Gillo è un famoso ed affermato regista cinematografico, era soprannominato il “signor neutrino” per l’impegno e le energie che profuse in questo campo della ricerca. Oltre a suggerire il metodo più adatto per rivelarne la presenza, fu anche colui che per primo intuì l’oscillazione di queste elusive particelle ossia la loro capacità di cambiare aspetto e trasformarsi lungo il trasferimento da un luogo ad un altro. Di ciò si parlerà in seguito.

Per quanto riguarda il bersaglio più adatto per registrare la presenza di neutrini allo stato libero, Pontecorvo propose di utilizzare un isotopo del cloro, il cloro-37, che possiede il nucleo particolarmente ricco di neutroni. Se nel nucleo dell’atomo di cloro-37 riuscisse a penetrare un neutrino in grado di produrre l’emissione di un elettrone, il neutrone si trasformerebbe in protone. Il cloro-37, con un neutrone in meno e un protone in più, diventerebbe Argo-37 che è un elemento radioattivo e quindi potrebbe essere identificato con relativa facilità.

A partire dalla metà degli anni sessanta anche il fisico americano Raymond Davis si mise all’opera per scoprire i neutrini solari. Egli utilizzò come rivelatore un enorme recipiente colmo di tricloroetilene (un solvente assai comune usato per la pulitura a secco degli indumenti e noto anche con il nome di trielina). L’osservatorio di neutrini venne quindi sistemato all’interno di una miniera abbandonata per schermarlo dalla radiazione di fondo ossia da tutte quelle radiazioni provenienti dallo spazio che la roccia e il terreno sovrastante avrebbero assorbito. Restavano alcune radiazioni provenienti da materiale radioattivo contenuto nelle rocce che circondavano il sito dell’esperimento e, naturalmente, i neutrini che passano senza difficoltà attraverso tutti i materiali.

L’osservatorio dei neutrini ha fornito un dato sconcertante: il numero di queste capricciose e misteriose particelle provenienti dal Sole era solo un terzo di quello che avrebbero dovuto essere considerando le teorie riguardanti i processi di fusione nucleare che avvengono all’interno delle stelle (si trattava del cosiddetto problema dei neutrini mancanti). Secondo alcuni scienziati la mancata concordanza fra teoria e osservazione poteva significare una diminuzione dell’attività solare che avrebbe potuto portare, in breve tempo, ad una nuova era glaciale. Altri tentarono invece una spiegazione meno radicale del fenomeno, basata su un processo chiamato “mixing”, l’oscillazione dei neutrini da una forma all’altra, intuita alcuni anni prima da Pontecorvo.

  1. LA MASSA DEI NEUTRINI

Una volta avuta la certezza dell’esistenza dei neutrini rimaneva aperto il problema relativo alla loro massa: i neutrini ne sono privi o ne hanno una? E se hanno massa questa è piccola o piccolissima? Sono domande la cui risposta è di fondamentale importanza per i fisici e gli astrofisici poiché questi ultimi, se i neutrini fossero dotati di massa, risolverebbero il problema della cosiddetta “materia oscura” ossia di quella materia che esercita notevoli effetti gravitazionali sulle galassie, ma che nessuno ha mai visto, né sa esattamente da che cosa sia formata.

Esistono diversi metodi per scoprire sperimentalmente se il neutrino possiede o no una massa, ma si tratta sempre di metodi di difficile applicazione pratica e tali da richiedere l’utilizzo di apparecchiature molto sensibili. Uno di questi si basa su quel processo cui si è accennato in precedenza, che si chiama “mixing”. Per capire di cosa si tratta bisogna sapere che esistono tre tipi diversi di neutrini: uno per ciascuna delle particelle simili all’elettrone che conosciamo. Essi differiscono per le reazioni da cui hanno origine e per le reazioni che essi stessi originano quando interagiscono con la materia.

I neutrini prodotti insieme agli elettroni o agli anti-elettroni (positoni) vengono chiamati neutrini elettronici. Le altre specie di neutrini sono associate agli altri due tipi di particelle, simili agli elettroni, esistenti: il muone e il tauone. I neutrini che compaiono nelle reazioni in cui sono coinvolti muoni e tauoni si chiamano rispettivamente neutrini-mu e neutrini-tau. Ora la presenza di tre tipi diversi di particelle simili (con le rispettive antiparticelle), suggerisce la possibilità, sulla base delle più moderne teorie della fisica, di uno scambio da una forma nell’altra. Gli strumenti utilizzati per monitorare le particelle provenienti dal Sole di cui si è detto in precedenza, erano in grado di scoprire una sola varietà di neutrini: quella dotata di maggiore energia, cioè i neutrini elettronici. Questo era il motivo per il quale nell’esperimento descritto in precedenza ne venivano rilevati meno di quelli che partivano dal Sole.

Prima di parlare di questa oscillazione e della conseguente distribuzione dei neutrini nelle tre varietà esistenti, consideriamo un’analogia che renderà più chiaro il concetto. Immaginiamo di osservare dall’alto un’autostrada a tre corsie, come è ad esempio la Venezia Padova, e immaginiamo anche che per accedere a questa autostrada si debba prima percorrere un tratto di strada con una sola corsia. In un primo tempo, quindi, le automobili, viaggiando sull’unica corsia disponibile, saranno costrette ad incolonnarsi e, procedendo tutte quante alla stessa velocità, appariranno, per quanto riguarda il movimento, uguali fra loro. Quando l’autostrada si allarga e appaiono le tre corsie di marcia, le automobili cominceranno a sorpassarsi e andranno ad occupare tutte le carreggiate disponibili. Le più veloci si metteranno a viaggiare sulla corsia più esterna, le meno veloci in quella più interna. Durante il viaggio qualche vettura cambierà corsia, ma il numero delle automobili presenti sulle tre corsie sarà mediamente sempre lo stesso.

Torniamo ora ai neutrini e alla possibilità che muovendosi nello spazio possano cambiare forma. Secondo le leggi della meccanica quantistica, particelle dello stesso tipo possono trasformarsi le une nelle altre, ma solo se possiedono masse leggermente diverse. Pertanto, solo se almeno due dei tre tipi di neutrini esistenti avessero una massa diversa da zero potrebbe avvenire la distribuzione nelle tre forme possibili, mentre se avessero ad esempio tutti e tre massa zero non avverrebbe alcuna distribuzione. Per tornare alla similitudine precedente, se le automobili avessero tutte la stessa velocità nessuna di esse potrebbe cambiare corsia.

Scoprire quindi che le reazioni prodotte dai neutrini, all’interno di opportuni rivelatori, sono in numero inferiore a quelle previste rappresenterebbe, già di per sé, la prova che almeno due dei tre tipi di neutrino sono dotati di massa. Si sapeva che i reattori nucleari producevano un unico tipo di neutrino: il neutrino elettronico. Questo avveniva perché in essi si verificava un unico tipo di reazione e cioè la trasformazione del neutrone in protone che avrebbe dovuto produrre un ben preciso numero di neutrini elettronici. I neutrini elettronici però nel breve tragitto che li separava dall’apparecchio rivelatore, evidentemente si mettevano ad oscillare, cioè si trasformavano alternativamente e ripetutamente nelle tre specie esistenti: neutrini-mu, neutrini-tau e neutrini elettronici. Ad essere rilevati, tuttavia, erano solo questi ultimi cioè gli unici ad essere in grado di reagire con la materia contenuta nel rivelatore e questa era la prova non solo dell’esistenza dei tre tipi di neutrini, ma anche che gli stessi non potevano avere tutti massa zero.

  1. QUANTO PESA IL NEUTRINO?

Sapere che il neutrino deve avere una massa non significa ancora conoscerne l’entità.

Nello stesso periodo, eravamo agli inizi degli anni ’80, in cui il gruppo di ricercatori americani diretto da Fred Reines dell’Università della California a Irvine dimostrava che i neutrini dovevano possedere una massa, un altro gruppo di fisici, questa volta russi, che lavorava presso l’Istituto di Fisica teorica e sperimentale di Mosca annunciò di essere riuscito a pesarne uno. Si trattava, ovviamente, di una misura indiretta ricavata dagli effetti che il neutrino determinava sulle particelle coinvolte nelle reazioni alle quali partecipava. La prova indiretta di un evento corrisponde, per fare una similitudine, alla scoperta di un ladro che nessuno ha visto. Se una persona, entrata in casa dopo breve assenza, scoprisse che alcune suppellettili sono fuori posto e che manca qualche oggetto prezioso, si farebbe il convincimento che in casa è entrato un ladro, anche se questo ladro in realtà non è stato visto da nessuno.

Negli anni seguenti, entrambi gli esperimenti, quello condotto dal gruppo degli americani e quello eseguito dai russi vennero sottoposti a critiche molto severe che ne misero in dubbio la validità.

Nell’estate del 1982 gruppi di ricercatori americani, tedeschi e svizzeri, in modo indipendente gli uni dagli altri, avevano condotto ricerche molto accurate sull’oscillazione del neutrino utilizzando strumenti molto più sensibili di quelli adoperati dal gruppo di scienziati che lavorò a Irvine e non erano riusciti a trovare alcuna traccia di oscillazione. Sorse quindi il dubbio che l’esperimento di Irvine non fosse stato condotto correttamente e che il numero di neutrini rilevato rispetto a quello che, secondo i calcoli, ci si doveva aspettare, poteva essere dipeso da un errore nel calcolo dei neutrini generati dal reattore. La conclusione di tutto ciò era che, contrariamente a quello che si riteneva, il neutrino avrebbe potuto anche essere senza massa.

D’altra parte anche le misurazioni che provenivano da Mosca lasciavano la comunità alquanto perplessa. Vi è da dire, ad onor del vero, che gli scienziati occidentali non hanno mai nutrito una grande fiducia nei risultati sperimentali provenienti dai paesi dell’est, specialmente se per ottenerli si dovevano utilizzare delicati strumenti di misura o sofisticate apparecchiature elettroniche. In questo caso gli esperimenti russi erano stati eseguiti misurando il decadimento del trizio, un particolare atomo dell’idrogeno nel cui nucleo, invece che un unico protone, vi sono anche due neutroni. L’atomo di trizio non era tuttavia isolato, ma legato ad una molecola organica a struttura piuttosto complessa. Questo fatto creava dei problemi seri riguardanti la misura dell’energia in campo. Quando il neutrone, che si trova all’interno del nucleo del trizio, decadeva, cioè si trasformava in un protone e in un elettrone, l’energia che si sprigionava avrebbe potuto trasferirsi sia alla molecola complessa alla quale l’atomo era legato, sia alle particelle generate dalla scissione del neutrone. Il trasferimento di energia alla molecola, che non è facilmente determinabile, abbasserebbe tuttavia il valore dell’energia cinetica presente sull’elettrone espulso dal nucleo del trizio e questa diminuzione di energia potrebbe venire confusa con la presenza di un neutrino.

Anche l’esperimento dei russi venne rifatto in altri laboratori impiegando il trizio contenuto in materiale diverso da quello utilizzato la prima volta o anche in forma isolata, ossia come gas. I risultati ottenuti continuavano ad essere contraddittori e incerti. Su due punti tuttavia tutti erano d’accordo e cioè sul fatto che gli esperimenti non escludevano la possibilità che la massa del neutrino potesse essere zero e inoltre che la massa del neutrino, qualora dovesse esistere, avrebbe dovuto essere molto più piccola di quella finora ipotizzata, addirittura dell’ordine del milionesimo di quella dell’elettrone che a sua volta ha una massa estremamente esigua. L’elettrone pesa un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di grammo (10-27g).

Qualora la massa del neutrino fosse veramente infima, il neutrino stesso perderebbe interesse da un punto di vista cosmologico perché, nonostante l’abbondanza (si calcola che debbano esserci un miliardo di neutrini per ogni particella pesante, ossia protoni e neutroni, che costituisce la materia ordinaria) non sarebbe più sufficiente per chiudere l’Universo ossia per frenare l’espansione in atto facendo invertire la rotta alle galassie e costringendole a precipitare in un gigantesco collasso, un immenso “big crunch” che farebbe tornare ogni cosa al punto di partenza.

Un tempo in auge quali candidati al ruolo di materia dominante nell’Universo, oggi i neutrini sono fuori moda e non solo perché li si ritiene privi di massa. Vi sono considerazioni di carattere astrofisico che ne limitano il ruolo perché non sarebbero in grado di spiegare l’evoluzione della struttura che ha portato all’attuale disposizione delle galassie. Le ricerche comunque continuarono e furono rilevati i primi neutrini provenienti da una stella lontana.

I fisici da molto tempo erano certi che i neutrini, se erano prodotti dal Sole, dovevano essere prodotti anche dalle altre stelle che tuttavia sono molto più lontane del Sole e considerato che le apparecchiature di cui disponevano erano in grado di rilevare la sola presenza di alcuni neutrini solari al giorno, non vi era alcuna probabilità che si potessero registrare neutrini provenienti da stelle centinaia di migliaia di volte più lontane del Sole. Si calcola che il numero di neutrini che ci arrivano da stelle di dimensioni solari che si trovassero ad alcuni anni luce di distanza non sarebbero molto di più di uno ogni mille anni.

Nel 1987 si verificò, tuttavia, un fatto strano. Il rilevatore di neutrini posto sotto il Monte Bianco registrò l’arrivo, in un breve intervallo di tempo, di sette neutrini. Ciò era ritenuto un fatto anomalo che insospettì i fisici i quali si chiedevano da dove potessero provenire in quanto si trattava di un flusso di neutrini molto superiore alla media.

Il mistero fu risolto il giorno dopo quando degli astronomi in Perù notarono, nella Grande Nube di Magellano, una stella molto luminosa che non era mai stata osservata in precedenza. La Grande Nube di Magellano, nonostante il nome, è una piccola galassia che si può osservare dall’emisfero australe mentre non è visibile dall’Europa. Ebbene in questa galassia lontana da noi solo 150.000 anni luce (le galassie normalmente distano milioni di anni luce le une dalle altre), era esplosa una stella. Le stelle di grosse dimensioni, quando esplodono, si chiamano supernove ed era dai tempi di Galilei che un evento del genere non si verificava a cosi breve distanza da noi. Una supernova produce un’enorme quantità di neutrini, miliardi di volte superiore a quella prodotta normalmente da una stella e questa era la ragione della registrazione anomala del Monte Bianco. I neutrini inoltre raggiunsero la Terra dalla parte opposta a quella in cui erano sistemati i rivelatori, ma non ebbero difficoltà ad attraversarla. I calcoli portarono alla conclusione che i neutrini avrebbero dovuto viaggiare ad una velocità pari a quella della luce e questo fatto fece pensare una volta di più che fossero privi di massa.

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