È appena cominciata la quinta missione del programma HI-SEAS. Per otto mesi sei persone vivranno su un remoto vulcano dell’isola Hawaii, simulando una spedizione sul pianeta rosso.
Nel 2030, viaggio su Marte. Occorre la tecnologia, certo: le astronavi, la propulsione chimica o nucleare, i sistemi radar e via discorrendo. Ma al pari, se non persino prima, della strumentazione hi-tech serve un gruppo affiatato. Una squadra organizzata, efficace, quasi indistruttibile. Pronta ad affrontare ogni evenienza e a non dormire mai. Sembra crederci la Nasa, tanto che da diversi anni sta simulando la futura esplorazione “rossa” su un isolato vulcano dell’isola Hawaii, il Mauna Loa. Qui vengono fatti convivere sei perfetti sconosciuti per un determinato periodo di tempo. Nel breve termine, lo scopo dell’esperimento è testare la resistenza fisica dell’uomo in condizioni ambientali estreme. E soprattutto le dinamiche di gruppo in una situazione limite, quale appunto potrebbe essere quella di una lunga spedizione marziana. Più ambizioso è il sogno per domani: trovare la formula infallibile per mettere insieme il dream team perfetto.
Hawaii Space Exploration Analog and Simulation, o in breve HI-SEAS, è il nome del programma condotto dalla Università delle Hawaii in collaborazione con l’ente nazionale aeronautico e spaziale statunitense, che per gli studi fatti fino ad oggi ha sganciato ben due milioni di dollari. La quarta missione si è conclusa lo scorso 28 agosto ed è stata la più duratura: un anno di permanenza. Mentre la quinta è appena partita, andrà avanti per otto mesi. E ha una particolarità: si focalizzerà ancora di più sull’aspetto umano della faccenda per capire “il rischio del decremento delle performance dovuto a un’inadeguata cooperazione, coordinazione, comunicazione e adattamento psicosociale all’interno del gruppo”.
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I sei partecipanti alla quinta missione, quattro uomini e due donne, sono stati attentamente selezionati tra 700 aspiranti candidati. Ci sono: Laura Lark, ex programmatrice di Google; Ansley Barnard, ingegnera che spera di diventare astronauta; il ricercatore freelance James Bevington; l’ingegnere sistemista Joshua Ehrlich; e Samuel Payler, dottorando in astrobiologia. Anche loro, al pari di chi li ha preceduti, non avranno vita facile.
La struttura che li ospita – una sfera geodetica – sembra quasi un piccolo igloo dalle dimensioni di un appartamento con due camere da letto. Potranno uscire “in esplorazione” solo con indosso una tuta spaziale, mangeranno cibo disidratato. Da perfetti astronauti. Nessun contatto fisico con l’esterno. Le comunicazioni radio con la base terrestre saranno rallentate di 20 minuti. Come su Marte. E se la scorsa volta la realtà virtuale è stata utilizzata come palliativo per la lontananza da casa e la solitudine, adesso verrà usata in esercizi utili a prevedere la salute mentale, sia individuale che collettiva, il rendimento e lo stress. Mentre le espressioni facciali dei ricercatori saranno continuamente monitorate per capire quali sono le condizioni ottimali alla base della cooperazione.
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